martedì 7 marzo 2017

BELLEZZE NAPOLETANE




VICIENZ 'A MARE ANTICO RISTORANTE 
ORA ECOMOSTRO

com'è
com'era
 Dopo 35 anni di battaglie legali il Consiglio di Stato rinvia l'abbattimento di "Vicienz a Mare" a Pozzuoli. Verdi: "da decenni il lungomare è deturpato da questo ecomostro e ancora la giustizia amministrativa non decide". "Il Consiglio di Stato ha rinviato l'abbattimento dello scheletro "Vicienz a Mare" situato sul lungomare di Pozzuoli come racconta cronacaflegrea. Una vicenda incredibile - denunciano il consigliere regionale dei Verdi Francesco Emilio Borrelli e il consigliere metropolitano e comunale di Pozzuoli del Sole che Ride Paolo Tozzi -
che si trascina da oramai 35 anni dopo che i proprietari dopo un ristrutturazione dell'immobile furono accusati di aver realizzato un enorme abuso edilizio che deturpava il paesaggio del comune flegreo. Tra ricorsi, contenziosi e battaglie legali l'unica cosa certa è che da decenni questo ammasso di cemento rovina il lungomare e il paesaggio di Pozzuoli. Il comune aveva ordinato l'abbattimento ma con questo nuovo colpo di scena è tutto di nuovo rinviato con grave danno per la cittadinanza, i turisti e il paesaggio. Possibile mai che la giustizia amministrativa non sia in grado di mettere la parola fine a questa vicenda assurda e indecente?"
Breve storia della struttura tratta dal sito l'occhio del gabbiano. Dietro ad un nome c’è una storia ricca di quasi tre secoli. Tutto inizia nel lontano maggio 1676 dopo che i frati cappuccini ebbero dall’amministrazione comunale il permesso di costruire a 50 passi dal mare, in località “bucciaria”, uno ospizio-convento stagionale. Questi divenne un rifugio per i frati che dovevano allontanarsi dal convento, situato in prossimità del lago d’ Agnano, a causa delle continue esalazioni della macerazione delle canne di lino che provocarono la morte di alcuni di essi. Dopo varie vicende che videro il contrasto tra i Domenicani e i Cappuccini, iniziarono i lavori dell’ospizio. A quei tempi lo stabile si presentava con una forma rettangolare a due piani, posta a strapiombo sul mare. Al suo interno vi erano 15 celle, un’ ampia chiesa e le stanze adibite ai servizi. L’ospizio ebbe una vita caratterizzata dalle molteplici ristrutturazioni causate da due fattori principali: l’erosioni del mare e il bradisismo. Quest’ultimo portò al completo allagamento del pian terreno e la conseguente chiusura nel 1850. Solo dopo il 7 luglio del 1866 ,con la legge per l’incameramento dei beni ecclesiastici, la costruzione passò nelle mani del demanio marittimo nel 1871, e successivamente, nel 1875 fu venduto dal ministero della marina ad un privato che lo adibì a locale per pescicoltura e bagni.
Nel 1880 il vecchio ospizio divenne una trattoria grazie al gastronomo napoletano Gennaro
Polisano , che inventò un piatto denominato “Cannoni all’Amstrong” in onore dello stabilimento Amstrong che poi successivamente prese il nome di “Sofer”. Inoltre il maestro Polisano era anche conosciuto per il suo “ragù Polisano ” che come ingrediente segreto aveva il cioccolato e il famosissimo vino di Marsala o Pantelleria. Lo stabile rimase di sua proprietà fino al 1927, quando Vincenzo Maiorano lo rilevò, trasformandolo in un magnifico ristorante denominato “Vicienz ‘a mmare”, teatro di cerimonie e di pranzi favolosi creati da chef rinomati. Il sogno di Vincenzo però durò fino al 1972 quando, a causa di gravi lesioni alla strutture, dovette chiudere. Dopo dieci anni ci furono i lavori di ristrutturazione per il rifacimento dell’intera struttura che dopo qualche mese fu dichiarata abusiva dal demanio marittimo, rendendola quella che è tutt’oggi: un enorme ammasso di cemento inanime che ricorda un palazzo libico colpito da un bombardamento.
 Un gioiello d’arte sconosciuto: 
Palazzo Tirone Nifo

Tra le tante gemme nascoste nel tessuto urbano di Napoli un posto di rilievo lo occupa Palazzo Tirone Nifo, oggi trasformato in scuola, nel cui interno si può ammirare un grandioso dipinto di Francesco Solimena
Brandi

dipinto di Solimena
(fig.01), una cappella affrescata da Paolo De Matteis e delle gioiose decorazioni floreali eseguite da Gaetano Brandi(fig. 02). Tutto negato alla fruizione di turisti e indigeni ed ignoto agli stessi specialisti. Una pecca imperdonabile che cercheremo di colmare attraverso questo articolo.

Palazzo Tirone Nifo

Il "poggio delle Mortelle" chiamato così già dal sec. XVII, probabilmente per i numerosi alberi di mirto (in napoletano monelle), oppure per le proprietà della famiglia De Troyanis Y Mortela, agli inizi del 1600 doveva essere una zona così amena, silenziosa e ricca di alberi e giardini, che numerosi ordini religiosi, dopo il Concilio di Trento, decisero di istituirvi dei conventi. Tra i primi religiosi vi furono i Carmelitani della Concordia, poi alla fine del '500 i Conventuali che fondarono S. Maria Apparente, gli Agostiniani nel 1618 S. Nicola da Tolentino, i Barnabiti nel 1616 S. Carlo alle Mortelle. Sorsero anche edifici destinati a religiose, come il Suor Orsola Benincasa nel 1633 ed il ritiro di Mondragone nel 1653.

Non minore attenzione al fascino della zona prestarono alcune famiglie aristocra­tiche come i Calà Ulloa e i Brancaccio ed illustri giureconsulti che vollero in quel luogo la loro residenza.

Nell'ultimo decennio del '600 la zona compresa tra S. Maria Apparente e S. Carlo alle Mortelle, dove ancora la collina si presentava ricca di alberi e giardini e dalla quale si godeva un' incantevole vista a mare, un ricco commerciante napoletano, Giuseppe Tirone, comprò un'abitazione e, per non farla essere da meno alle altre, la volle più grande e decorata dai migliori artisti dell'epoca. Non si sa chi progettò l'edificio, ma certamente quello al vico S. Maria Apparente, dove attualmente ha sede la scuola media statale Vittorio Emanuele II, ha subìto numerosi rimaneggiamenti per assecondare i vari usi ai quali è stato adibito. L'ultimo restauro, quello dopo il terremoto del 1980, è stato forse il più dannoso per l'edificio, sia per le ulteriori trasformazioni che ne hanno sempre di più snaturato la conformazione, sia per l'introduzione e la sovrapposizione di scale di sicurezza in ferro e di profilati metallici. La facciata su vico S. Maria Apparente, forse presenta ancora oggi l'aspetto originale: due portali d'ingresso e tre ordini di aperture simmetriche incorniciate dal piperno, per l'interno, invece, non è possibile risalire alla struttura originale, in quanto l'edificio aveva anche l'ingresso da via Filippo Rega con dei corpi di fabbrica quindi, a livelli diversi che digradavano sulla collina probabilmente intervallati da giardini terrazzati, da cortili e spazi interni. Il palazzo doveva essere dotato di stalle, ingresso per le carrozze e stanze per il personale. Sicuramente il secondo piano doveva essere quello di rappresentanza per la presenza delle due sale affrescate dal Solimena e dal De Matteis, e l'impegno economico del committente dovette essere notevole, perché anche altri ambienti dovevano essere stati decorati, lo dimostra la presenza di tre logge sulla stessa verticale, ma su piani diversi, due delle quali sono ancora intatte e presentato un pregevole soffitto decorato da Gaetano Brandi(fig.02 - 03) in cui vi è un magnifico effetto trompe l'oeil. Non si riesce a datare l'affresco del Solimena, De Dominici non ne fa cenno, ne parla il Ceva Grimaldi (1857),  il Pavone, che ne ha fatto uno studio approfondito, ritiene che il pittore lo abbia dipinto nell'ultimo decennio del sec. XVII, opinione sulla quale concordiamo. Il dipinto è celebrativo e, probabilmente, vuole essere un omaggio alla famiglia De' Medici, come si evince dal grande stemma che chiude il decoro dell'affresco. Nel 1737 l'edificio viene trasferito da Carlo III di Borbone agli Scolopi perché fondassero un collegio per i giovinetti nobili della città che si chiamò "Collegio di sopra S. Carlo alle Mortelle". I padri Scolopi di Puglia furono ben felici dell'inca­rico anche perché dovevano lasciare la loro sede di Posillipo ed erano in cerca di un edificio per educare i giovani. E' il momento in cui la struttura subirà le prime trasformazioni per essere adattata all'ospitalità dei giovani che venivano separati in camerate in base all'età ed erano sorvegliati giorno e notte da un religioso ed un cameriere e vigilati dal Padre Ministro.

Gli allievi erano accolti dai 6 ai 10 anni, fino ai 16, 19 anni, gli insegnamenti impartiti comprendevano sia materie umanistiche che scientifiche, particolare rilievo veniva dato ad attività di laboratorio (ricchissimo il gabinetto di fisica). Si dava spazio, inoltre, allo studio dell'eloquenza, della calligrafia, della scherma e della danza.

In pochi anni il collegio divenne famoso e importante soprattutto sotto la direzione del Padre Carcani e del Padre De Nobili (ricordato nell'iscrizione marmorea posta nell'ex Cappella al secondo piano), diventando di esempio per il suo regolamento agli altri collegi che si andavano fondando. Era divenuto un tale modello educativo, che nel 1809, quando il Murat requi­sirà tutti i beni ecclesiastici, risparmierà il collegio considerandone l'alto valore educativo. All'epoca numerose erano le richieste di iscrizione e per controllare e seguire un numero sempre maggiore di allievi, raddoppiò il numero di Padri Scolopi che nel 1850 divennero circa 40. Fu il periodo più fulgido del collegio, i Padri rinnovarono la Cappella al secondo piano facendola decorare di stucchi e quadri sulla vita e le opere di Giuseppe Calasanzio, loro fondatore, e ponendovi due lapidi in onore di Maria Assunta in Cielo ritratta nell'affresco centrale e di Padre O. F. De Nobili rettore del collegio che contribuì alla beatificazione del Calasanzio. Gli ultimi anni di attività del collegio, che si chiuse per esproprio nel 1867, furono problematici per le discordie che nacquero tra i padri, infatti quando il Governo centrale lo chiude, questi si divideranno. Non è possibile datare le trasformazioni che subì l'edificio durante e dopo la gestione dei Padri Scolopi, certamente intorno al giardino centrale (ora un brutto cortile) doveva esservi un chiostro e poi sulla sinistra un'altra Cappella più ampia dove attualmente sono le due palestre della scuola. Qualche segno del passato si intravede in alcune aule dove c'è uno stucco, una nicchia, ecc. Del collegio sono rimasti i libri di iscrizione degli allievi e nume­rose macchine del laboratorio di fisica, inoltre varie suppellettili. Dopo gli Scolopi l'edificio ospiterà altre scuole, dal Liceo Ginnasio Principe Umberto, all'Istituto femminile Vittorio Emanuele II per il ricamo ed il cucito, di cui sono rimaste una serie di antiche macchine da cucire e delle piante dell'edifi­cio così come veniva utilizzato per i vari laboratori.Dopo avere ospitato anche un Magistero parificato, l'edificio dal 1962 è sede della Scuola Media Statale Vittorio Emanuele Il.

              Achille Della Ragione

Il trionfo dell’erotismo 
nella scultura napoletana tra '800 e '900
figura 1
figura 2
figura 3
 Cominciamo questa entusiasmante carrellata tra poppe al vento ed invitanti sederi ben esposti illustrando la Victa (fig. 1) di Francesco Jerace, il suo capolavoro, che secondo le intenzioni dell’artista rappresentava, con il suo sguardo fiero ed orgoglioso, la Polonia, “vinta”, ma non domata. Si tratta di un’opera a me particolarmente cara, perché cara mi costò quando nel 1994 me la aggiudicai nella memorabile asta dei beni del mitico Achille Lauro, nella cui villa di via Crispi troneggiava  sul grande scalone che portava ai piani superiori, mentre da oltre venti anni attira i maliziosi sguardi degli ospiti nel salone della mia villa di Posillipo.Ad essa dedicai un breve articolo: Il caldo tepore di un seno di marmo, pubblicato su numerose riviste, che ha costituito la prefazione del mio libro: Il seno nell’arte dall’antichità ai nostri giorni(consultabile in rete digitandone il titolo) e che oggi vi ripropongo.

“Godere della bellezza di un seno, anche se raffigurato dal pennello di un pittore o dallo scalpello di uno scultore è l’esercizio più nobile che distingue l’uomo dalla bestia, la civiltà dalla barbarie, è la sintesi di una condizione umana immutabile, sospesa tra l’esaltazione dell’amore ed il terrore della solitudine, tra la gioia di vivere e la paura di morire e ci aiuta ad affrontare più serenamente l’angoscia dell’esistenza, a coglierne la bellezza e la fragilità. 

Che cos’è veramente l’arte se non una guerra, una lotta contro la materia, un corpo a corpo con la forma e con l’idea. Perdersi nell’armonia delle forme e dei colori permette di addentrarsi in un mondo senza frontiere e ci dà la possibilità di essere felici nell’eternità della bellezza e dell’arte.

Quale viaggio più avventuroso della serena contemplazione dei severi seni della Victa, un busto marmoreo, capolavoro dello scultore Francesco Jerace, già nella collezione del comandante Achille Lauro. 

La statua proviene da un blocco di marmo di Carrara bianchissimo e luccicante ed irradia una luce abbagliante, che sembra stregare ed avvincere l’osservatore, il quale, rapito dalla bellezza del volto corrucciato e dalla vista degli splendidi seni non può guardarla troppo a lungo senza desiderarla. I seni della Victa sono fatti di un marmo carnoso, ricco, trasparente; essi sono eterni, sostenuti dalla rigidità della materia impassibile. Non si deformano, né avvizziscono, archetipo immobile della femminile bellezza. Rappresentano il porto sicuro verso cui ogni uomo anela di fermarsi e riposare per sempre, preziosi come una boccetta di rare essenze, prorompenti, ma nello stesso tempo fragili, come se costituiti da sottile cristallo, che a rompersi si disperdono come polvere di talco. 

Alla vista di questi seni immortali è inevitabile per l’osservatore cadere vittima della sindrome di Sthendal: una vertigine intensa ed interminabile che illuminerà questo nostro lungo percorso attraverso l’arte ed attraverso il seno, un pianeta che merita di essere esplorato e sviscerato in lungo e largo per un sottile piacere dello spirito”. Prima di passare oltre vi confesso che ho utilizzato più volte queste frasi laudative per elogiare seni di signore e signorine, illuse che fossero stati composti alla vista dei loro e la ricompensa è stata sempre palpabile e commisurata ai complimenti.

fig.8
Passiamo ora ad un seno plebeo, ma non meno prorompente, quello di una schiava(fig. 2) immortalata da Giacomo Ginotti nel 1877 e conservata nelle austere sale del museo di Capodimonte. La schiava è colta nel momento in cui rompe le catene che le stringono i polsi, un gesto supremo che le scuote il corpo e ne segna il viso da cui traspare la traccia dell’antica servitù e l’aureola della agognata libertà. L’artista si serve della sensualità della giovane africana per farsi latore di una severa denuncia sociale. I seni della fanciulla(fig. 3) sono fatti di un marmo, carnoso, ricco, trasparente che li fa tersi e puri. Come è difficile non contravvenire al severo divieto nei musei di non poter toccare le statue e provare con mano la rigidità della materia impassibile, archetipo di forme immortali, che non si deformano, non avvizziscono e sfidano lo scorrere del tempo, permettendo di godere con la vista e correre con la fantasia. A pochi è concesso il privilegio di vivere in eterno nella memoria degli altri, per i seni di questa anonima giovinetta  è invece normale sfidare i secoli, dando gioia e diletto a più generazioni, fino a quando tra gli uomini sarà vivo il gusto per il bello.  Una faunetta che allatta un agnellino(fig. 4), tra le più riuscite opere di Vincenzo Jerace, fratello del più famoso Francesco, rappresenta una originale iconografia, basata su visioni simbiotiche fra uomo e natura e sulla solidarietà che lega tutti i viventi. Il piccolo bronzo, pare improntato ad una certa solennità rinascimentale, che rimembra i preziosi lavori di oreficeria del Cellini, grazie alla preziosa patina dorata che l’artista imprime a questa delicata composizione.  L’abitudine di allattare per anni trova la sua prima ragione nella povertà più assoluta, anche se tale pratica ha un benefico effetto nel ritardare la nascita di altri figli. Il latte al seno non costa niente ed anche se diventa sempre più scarso ed inadeguato può lenire i morsi della fame ad un bambino di 2-3 anni e nella stessa misura può salvare un piccolo agnellino che ha smarrito la mamma, come quello magistralmente descritto nell’opera in esame. Unico serio inconveniente di questa sofferta costumanza sono profonde e dolentissime fissurazioni nei capezzoli, le temibili ragadi, porta di ingresso delle più varie infezioni, ma il seno della nostra mamma ha resistito spavalda all’attacco dei denti del figliolo ed a testa alta regge la sfida solitaria in favore della solidarietà. Il volto è gioioso, il seno è impettito ed esuberante ed il capezzolo, spavaldo, sembra voler combattere la sua disperata battaglia contro la fame. Achille d’Orsi intitola la sua opera Pathos (fig. 5), ma sarebbe stato più esaustivo affiancare la parola Estasi, perché questa sensazione promana prepotente dalle leggiadre forme della fanciulla impressa nel bronzo in una posa tra eccitante e sensuale. L’opera fa parte di quella serie di splendide figure di donne, spesso colte in atteggiamenti drammatici e convulsi, ma che lo scultore ritrae nel pieno rinvigorimento tutto liberty delle forme e delle espressioni e nel compiacimento edonistico delle nudità muliebri. La carica erotica che emana dalla scultura è palpabile, ma l’artista non cede mai ad una sensualità volgare o eccessiva e vi riesce perché fa leva sulla grazia di due seni non aggressivi, due boccioli in fiore, fragranti di un profumo seducente in grado di attirare senza eccitare e di conquistare anche i più indecisi. Seni che mal sopportano di essere imbrigliati in leziosi corsetti, dei quali rifiutano il morso come puledri selvaggi, ansiosi di trottare senza sosta e senza meta, capaci di procurare morbosi desideri di futili piaceri.
figura 4
figura 5
fig.11
figura 6
figura 7

A partire dagli anni Novanta dell’Ottocento l’arte di Costantino Barbella muta in direzione del Simbolismo ed il corpo femminile diviene il centro di una nuova osservazione secondo l’idea di una donna sensuale, orbitante nel decadentismo dannunziano. La ricerca del bello formale doveva avvenire sempre e soltanto attraverso la ripresa dal vero, che senza incertezza alcuna riusciva a ritrarre in scala, come nel caso di questa sensuale terracotta, giustamente denominata Ebbrezza(fig. 6), nella quale uno splendido nudo femminile è languidamente disteso su un letto di rose ed invita a pensieri non proprio casti l’osservatore. La stessa modella, ridente ancor d’infanzia e già schiusa nel fiore della prima adolescenza, dopo poco si alza e dà vita ad un’altra delle opere più famose del Barbella: Risveglio(fig. 7), una statuina di piccole dimensioni, nella quale è sottolineata la sinuosità del corpo della donna, colta mentre si aggiusta i capelli, un gesto semplice di vita quotidiana. I capelli ondulati cingono la testa e si annodano sulla nuca; il collo è di una purezza perfetta, l’orecchio è piccolo, le mani e le braccia sono eleganti e forti, le reni sono falcate, il ventre sporge lievemente ed è quasi palpitante in una dolce elasticità di carne, mentre il seno è fiorente e diventa il centro dinamico della composizione. Grande successo ebbe la Venere che avvolge la chioma (fig. 8) di Giovan Battista Amendola quando fu esposta nel 1903 alla V Internazionale di Venezia. Una Venere antica per purezza di linee, eleganza di forme, verità di nudo; donna più che dea, che abbaglia con lo splendore della superba anatomia, ma anche con quell’aurea di vitalità che le toglie l’aspetto glaciale dell’immagine, raggiungendo un vertice della rappresentazione artistica.  La scultura raffigura la dea mentre una leggera brezza scompiglia i suoi capelli ed accarezza il suo corpo vellutato, gloriosamente nudo. Il suo prezioso seno, eretto e valoroso, sembra pervaso da una generosità spontanea che invita alla serena contemplazione e fuga i cattivi pensieri. La misura geometrica di questi seni è in armonia con l’altezza e la forma del resto del corpo. Sono magicamente a posto nella loro perfezione. Rivelano inoppugnabilmente la materializzazione della grazia e della finezza. Lo scorrere dei secoli e l’evoluzione non potranno superare la semplice impostazione e la felice collocazione nello spazio e nel tempo di questi seni, leggiadri ed agili, scattanti e pronti al combattimento.Sono l’indefettibile testimonianza dell’infinita misericordia e lungimiranza del Creatore.Tito Angelini, noto scultore neo classico ed a lungo docente nell’Accademia di Belle Arti di Napoli, ci raffigura la nostra progenitrice Eva(fig.9) come figura isolata, prima di sedurre Adamo, in compagnia del serpente e della mela. Si tratta del primo nudo in assoluto a cui ne seguiranno infiniti altri. Eva è effigiata come una giovane e bella donna nuda, una Venere ante litteram, dai lunghi capelli, di una allusiva sensualità, a simboleggiare il pericoloso fascino femminile, con una resa morbida del modellato ed un’attenta definizione dei particolari anatomici. Da quel nudo sono cominciati per l’umanità gioie e dolori in egual misura. Esaminiamo ora due sculture in cui le modelle assumono posizioni acrobatiche per mettere in mostra con sprezzo del pericolo e consumata perizia le proprie grazie all’osservatore. La prima(fig. 10), un bronzo di Vincenzo Jerace ci mostra una vera sfida alle leggi della gravitazione con la fanciulla in preda a spasmodiche torsioni, nella seconda(fig. 11) di Antonio De Val, la fanciulla si esibisce in una sorta di danza del ventre a cui partecipa attivamente anche il seno, mentre il pomo assume un significato simbolico come invito al peccato ed alla trasgressione. Sono due lavori che non sfigurerebbero tra le pagine del Kamasutra, capolavoro della letteratura erotica di tutti i tempi, famoso codice indiano delle posizioni dell’amore scritto in sanscrito tra il IV ed il VII secolo, arricchito di immagini esplicative da artisti di ogni latitudine. Nel Kamasutra si dedica, come nei due bronzi in esame, particolare attenzione ai seni che portano i segni dei graffi di un amante in estasi. Un grosso graffio vicino al capezzolo veniva definito il salto della lepre e le donne erano orgogliose di mostrare alle altre donne questi trofei d’amore come prova inoppugnabile del successo con i propri amanti.Vogliamo concludere questa nostra carrellata tra arte ed erotismo dedicando la nostra attenzione, dopo la glorificazione di tanti seni, al non meno invitante lato B.  

figura 12
fig.13
fig. 14
14
fig.9
figura 10
Gli psicanalisti, nelle loro dotte elucubrazioni hanno diviso gli uomini in due distinte categorie: ciuccioni, che inseguono per tutta la vita il seno delle donne, per rammentarsi di quello della mamma e feticisti, adoratori più o meno espliciti del sedere quale fonte di sfrenata fantasia alla ricerca di piaceri raffinati.  La scultura in primis, ma anche la pittura,  il cinema, i rotocalchi, i concorsi di bellezza hanno nei secoli glorificato questo prezioso attributo femminile e, mentre Tinto Brass, con ambizioni filosofiche, ha scritto un piccolo trattato sull’argomento, noi vogliamo proporre alcune immagini per la gioia degli occhi e per gli spericolati ed innocui giochi della fantasia. L’arte ha sempre dedicato grande attenzione alla bellezza femminile soprattutto la statuaria che, con la rigida fissità della materia, ben rende la ricercata consistenza coriacea dell’attributo, come nella Danaide (fig. 12) eseguita da Luigi de Luca e conservata in quella preziosa quanto misconosciuta raccolta del Circolo artistico Politecnico, sito in Napoli in piazza Triste e Trento. L’artista è in grado con rara maestria di fermare l’attimo e lo spirito fluttuante nella materia, fissando nella cruda anatomia l’anima assetata di vita che freme nel marmo. In uno spazio ristretto sa collocare un’infinità di sottigliezze ed emozioni, donando un magico dinamismo alla fissità della materia. Di Tommaso Solari è una splendida statua (fig. 13 - 14), che mostriamo fronte retro, già appartenente alla raccolta di Casa Reale ed oggi conservata nella prestigiosa sede del museo di Capodimonte. Denominata Baccante, la giovane donna ha il capo cinto da una corona di pampini e solleva una coppa di vino. L’atteggiamento rilassato della figura, appoggiata ad un tronco d’albero, ricoperto quasi interamente dalla pelle di un felino, indurrebbe più verosimilmente ad identificare l’immagine con quella di Onfale. Ella si predispone all’occhio esterrefatto dell’osservatore, creando intorno a sé una nicchia dove un compagno di avventura è invitato come amante, ad accarezzare le sue forme generose di divinità dell’opulenza e nello stesso tempo di brava ragazza. Niente di più moderno di questo epicureismo alleggerito da ogni totem e tabù vittoriano. Il nostro discorso potrebbe dirsi concluso, ma trovandoci a Napoli, non possiamo non ricordare un capolavoro assoluto, anche se eseguito fuori dei termini temporali prefissati e da un artista non indigeno. Nel luogo più esoterico di Napoli, la Cappella San Severo, regno dei mirabolanti esperimenti del principe Raimondo di Sangro, affianco al famosissimo Cristo velato, trova posto una statua allegorica: la Pudicizia (fig. 15), realizzata nel 1752 dallo scultore veneto Antonio Corradini. Il monumento funebre è dedicato a Cecilia Gaetani d’Aragona, madre del principe, morta quando il figlio era in tenerissima età. Il Corradini, già famoso per aver realizzato figure velate, pare che a Napoli abbia raggiunto la perfezione grazie all’aiuto del principe, esperto di alchimia e di pratiche di trasmutazione della materia. La figura della giovane donna, completamente nuda e di rara bellezza, è ricoperta da un velo di marmo straordinariamente aderente alla pelle, leggerissimo, naturale, impalpabile che lascia vedere chiaramente il delicato contorno dei seni, sodi, sormontati da un altero capezzolo appuntito. L’artista raggiunge una perfezione assoluta nel modellare il tenue velo marmoreo sul delizioso corpo della donna con estrema eleganza e sobrietà, come se un vapore esalato da un bruciaprofumo contribuisse a rendere umido e tenacemente aderente alla cute lo strato impalpabile, interrotto orizzontalmente da un serto di rose. Lo sguardo smarrito nel tempo e la lapide spezzata sono i simboli di un’esistenza troppo presto troncata e palesano il tangibile ed ancora cocente desiderio del figlio Raimondo, che volle così tramandare le virtù, ma anche le splendide fattezze della giovane madre, il cui seno superbo aveva trasmesso gioia di vivere ed a lungo avrebbe potuto tenere accesa la fiamma del desiderio. Il bassorilievo posto sul basamento descrive l’episodio evangelico del Noli tangere a conferma di una dolorosa quanto definitiva impossibilità di ogni contatto umano ed a ricordarci la caducità del corpo e la vanità delle forme, anche le più sublimi quali i seni della giovane donna, esaltati da un velo magico di sovrumana bravura.

Achille della Ragione
 Antiche tradizioni in un mare 
Festa S..Restituta
di storia e di bellezza
nell'Isola d'Ischia

festa S.Vito
Festa S.Anna

La bellezza del golfo di Napoli è accresciuta dalle stupende isole che gli fanno da corona: Capri, Ischia e Procida, in rigoroso ordine alfabetico. Una romana, l’altra greca, le prime due gareggiano per bellezza, monumenti e cucina. Due gemelle diverse, amate in egual misura da vip e turisti mordi e fuggi, con le loro attrazioni celebri in tutto il mondo, in grado di calamitare fiumane di visitatori, dalla Grotta Azzurra a Villa Jovis, dalle terme Poseidon ai giardini della Mortella, senza dimenticare l’incanto di Procida con l’Oasi di Vivara, dove il tempo sembra essersi fermato.

Napoli, senza le sue isole che la contornano e lo stretto legame che ogni giorno si rinnova, non sarebbe la stessa, privata di quella preziosa corona di gemme che la circonda; distinte per la loro diversa conformazione in “virgiliane” quelle flegree, tufacee ed “omeriche” quelle della costiera sorrentina, “dolomitica” Capri.

Gli abitanti delle isole presentano caratteristiche comuni, influenzate dal mare che li delimita, il quale determina anche un particolare sviluppo dell’economia, della vita sociale, delle tradizioni civili e religiose.

Nel microcosmo isolano assume un ruolo trainante la formazione scolastica di matrice marinaresca con prevalenza di istituti nautici e professionali marittimi, i culti religiosi indirizzati alla venerazione di santi in qualunque modo legati alle acque, come San Francesco di Paola o Santa Restituta, le tradizioni popolari, con processioni caratterizzate da parziali percorsi tra le onde, come per la festa di San Vito, mentre le chiese sono piene di ex voto e quadretti d’argomento marinaro, ma, soprattutto, le attività commerciali ed artigianali, prima di essere soppiantate dalle attività turistiche, ruotano quasi tutte intorno al mare, dall’armamento navale alla pesca.

Ogni isolano subisce un’attrazione fatale con il proprio scoglio e, se deve recarsi sulla terraferma per acquisti od altre incombenze, non vede l’ora di tornare a casa ed è attaccato alla sua isola più che un cittadino alla sua città o un paesano alla sua cittadina.

Ischia, prima dei Romani, era colonia greca e più tardi è stata interessata dai flussi turistici, specialmente tedeschi. Tra i turisti affezionati un posto di rilievo è occupato dalla cancelliera Angela Merkel, da decenni habituè dell’isola, da quando, in quel di Sant’Angelo, prendeva il sole “nature”: oggi, dopo aver pagato regolarmente il biglietto dell’aliscafo, va a cenare a casa dell’amico Jacono, il maitre licenziato dall’albergo in cui trascorre da anni le sue vacanze, ancora in grado di preparare per lei ed il marito gustosi manicaretti.

Rimanendo in ambito gastronomico, si può andare ad Ischia o a Capri anche soltanto per gustare le prelibatezze della tradizione culinaria partenopea, dalla spigola al calamaro, dai timballi di maccheroni al ragù fino alle deliziose pastiere, mentre Ischia è famosa per il coniglio, cotto lentamente nel coccio secondo svariati modi al punto che ogni casa crede di essere l’unica titolare della vera ed unica ricetta, tramandata da generazioni.

Anche Ischia, isola verde per eccellenza, ha i suoi trionfi di bouganville e gelsomini. Che dire dei giardini Poseidon dove le vasche si susseguono a picco sul mare e si passa dal tiepido amniotico al caldo vulcanico ed al fresco dolce, mollemente adagiati nell’acqua termale su cui galleggiano petali di rose? E se proprio volete un tocco di chic, abbiamo ancora il giardino della Mortella, il giardino del raffinato sir William Walton, musicista e gaudente, davvero splendido. In alto sul mare di Forio, è un delicato e metamorfico delirio di piante tropicali che nella terra calda prosperano felici, mescolando orchidee rarissime a palme arcane: pochi passi in mezzo a questi tropici mediterranei e ci si trova in un altro mondo, in un’epoca in cui la bellezza si trasformava in musica della realtà. 

Ischia durante l’estate raggiunge i 500.000 abitanti e lungo le sue coste si muovono migliaia di natanti, dal gozzo dell’impiegato o del piccolo commerciante alle lussuose imbarcazioni da nababbo, lunghe decine di metri e cariche di donne tenebrose ed affascinanti. E, nonostante la grande confusione e l’inevitabile aumento dell’inquinamento, ci sarebbe da rallegrarsi, segno che l’economia, principalmente quella sommersa, non va così male come vogliono convincerci i nostri amati governanti ideatori della prossima severa finanziaria. 

Le feste religiose sulle isole offrono spesso uno spettacolo toccante: la processione per le acque della statua del santo che si celebra. Questo accade anche a Lacco Ameno in occasione di una delle feste più grandiose dell’isola: la festa di Santa Restituta.

Oltre che per il significato religioso, la Festa di Santa Restituta, a Lacco Ameno, è importante perché sancisce l’inizio della bella stagione sull’isola d’Ischia. Non l’inizio della stagione turistica, che per convenzione coincide con l’avvento della Pasqua, ma proprio l’inizio dell’estate. Insomma, mare, sole, spiagge e tutto l’immaginario tradizionalmente associato a una località balneare. Del resto, maggio è il mese ideale per visitare Ischia. Le giornate si allungano, le temperature aumentano gradualmente e ancora non c’è la calca di luglio e agosto.

Ma torniamo alla festa di Santa Restituta. Uno dei momenti più importanti delle celebrazioni – il clou dei festeggiamenti è il 16, 17 e 18 maggio – è la rappresentazione dello sbarco della martire tunisina sulla spiaggia di San Montano. Leggenda vuole che il corpo esanime della santa sia approdato sulle coste di Lacco Ameno dopo esser miracolosamente scampata al fuoco che i romani le avevano “riservato” per punizione. Santa Restituta, infatti, è una dei 49 martiri di Abitina, i cristiani processati e giustiziati nel 304 in Tunisia per non aver rinunciato alla loro fede; e assai venerati, per questo, dalla Chiesa cattolica.

Sempre secondo la leggenda, subito dopo lo sbarco, sulla spiaggia di San Montano fiorirono migliaia di gigli bianchi, da quel momento associati alla venerazione della santa divenuta in seguito patrona di Lacco Ameno. Figura centrale del racconto è anche una donna del posto – Lucina, il nome – che, avvertita in sogno della presenza, sulla spiaggia, della martire africana, si assicurò di darne degna sepoltura ai piedi della collina di Monte Vico, proprio dove oggi sorge la Chiesa di Santa Restituta.

Leggenda o no, è un fatto che sotto la cripta della basilica, negli anni ’50 del secolo scorso furono rinvenuti diversi reperti attestanti la presenza in loco di un antico cimitero paleocristiano, a conferma della profondità della fede sull’isola d’Ischia.

Merita una visita anche la chiesa, secondo alcuni la più bella dell’isola. Si trova al termine del corso Angelo Rizzoli, di fianco all’attuale municipio costruito dai frati Carmelitani. Pianta rettangolare, navata unica e soffitto cassettonato, la chiesa è piena di ex voto dedicati alla Santa, cui del resto era assai devoto anche il poeta francese Alphonse De Lamartine, uno degli ospiti illustri di Casamicciola, che nell’agosto del 1844 le dedicò addirittura una poesia, dal titolo emblematico, “Il Giglio di Santa Restituta”.

L’appuntamento, perciò, è per la sera del 16 maggio, quando sulla spiaggia di San Montano viene rievocata l’epopea di Santa Restituta. Da non perdere anche la processione via mare e i spettacolari fuochi pirotecnici dell’ultimo giorno, a chiusura della manifestazione.

San Vito è il santo patrono del comune di Forio d'Ischia e sono dedicati alle feste ed alle celebrazioni religiose ben 4 giorni.

Per l'occasione tutto il paese e' in festa perché questa ricorrenza è molto sentita dagli abitanti del comune e non solo. Sono tantissimi i turisti che si riversano nelle strade in questi giorni. La festa è caratterizzata da due momenti che ne formano un unico cuore. Il tradizionale omaggio culturale dei fedeli al santo patrono in tutta una serie di momenti religiosi e la tradizionale fiera nel centro e lungo la marina, arricchita da tutta una serie di concerti e momenti bandistici. I festeggiamenti si hanno dal 10 al 17 di Giugno.

Il 14 di giugno si celebrano le messe, in serata, nel piazzale di San Vito vi si ha la rappresentazione storica tradizionale della vita del patrono e del suo legame col comune. Il 15 di giugno, giorno di San Vito, si celebrano messe in continuazione, ed in mattinata una banda musicale gira per le strade cittadine. Nel pomeriggio la statua è portata in processione per le strade di Forio e sul porto verso le ore 18.00 un primo spettacolo di fuochi pirotecnici. Il 16 nel pomeriggio, il Santo e' portato in processione via mare con la commemorazione dei caduti con la partecipazione dell'A.N.M.I. e dell'associazione pescatori  San Vito di Forio.

Al rientro benedizione eucaristica e successivamente in piazza Municipio un nuovo concerto. La conclusione dei festeggiamenti è caratterizzata da una famosa ed attesa esibizione di spettacolari fuochi pirotecnici, che ha inizio alle ore 00.30 circa.

La festa di San Vito, che cade alla metà del mese di giugno, è molto sentita dagli abitanti di Forio d’Ischia, che ogni anno portano in processione per le strade del Comune la bella statua.

La scultura di San Vito è in rame e argento e venne disegnata dallo scultore Giuseppe Sanmartino (autore anche del Cristo Velato presente a Napoli nella cappella San Severo) e colata da due orafi napoletani nel 1787 (ma il culto del Santo è molto più antico). L’opera di rivestimento di oro della statua fu finanziata addirittura attraverso una tassa su tutte le caraffe di vino vendute nelle osterie.

Vito era un giovane cristiano forse di origine siciliana, che durante le persecuzioni dell’imperatore Diocleziano fu martirizzato per non aver voluto rinnegare la propria fede. La statua di San Vito lo raffigura, quindi, come un ragazzo che porta la palma del martirio; accanto a lui sono seduti un cane ed un leone, tradizionalmente associati a questo Santo, mentre il grappolo d’uva fra le mani, lo collega specificamente all’isola.

Il cane è il simbolo che indica la protezione del Santo contro malattie neurologiche, come per esempio quella che popolarmente viene chiamata “Ballo di San Vito”. Si racconta che San Vito guarì dalla malattia (l’epilessia) il figlio dell’imperatore Diocleziano.

Il leone sta a ricordare presumibilmente uno dei martiri che San Vito subì: fu dato in pasto ai leoni, ma essi lo risparmiarono rimanendo mansueti.

Veniamo al grappolo d’uva: nell’Ottocento i vigneti ischitani furono colpiti da gravissimi attacchi di crittogama, un fungo che distruggeva le piante. L’economia di tutta l’isola, e di Forio in particolar modo (poiché in questa zona la superficie coltivata a vite era assai estesa), fu messa in grave crisi.

Naturale che i contadini e le loro famiglie chiedessero aiuto al Santo patrono: la leggenda dice che una barca carica di zolfo, il rimedio che salvò i vigneti ischitani, fu fermata al largo di Forio proprio da S. Vito, che pagò la salvifica sostanza con un anello che apparteneva alla sua statua. In realtà, lo zolfo arrivò sì via mare, ma portato dai tre fratelli Sanfilippo, provenienti dalle Eolie (dove si trova zolfo in grande quantità) e furono essi a farlo conoscere ai disperati vignaioli ischitani.

Tuttavia, il suggestivo racconto dell’aiuto recato da San Vito ai suoi fedeli è più che mai vivo nelle famiglie foriane, al punto che durante la festa si usa adornarne la statua con grappoli d’uva appena raccolti, ancora acerbi essendo il mese di giugno, ma irrorati di zolfo, come tuttora si usa nelle vigne isolane.

La Festa a mare agli scogli di Sant’Anna è la più importante sagra estiva dell’isola d’Ischia. Si svolge la sera del 26 luglio a partire dalle 21 ad Ischia Ponte, che un tempo si chiamava il Borgo di Celsa, nello scenario della  baia di Cartaromana con una sfilata di barche allegoriche, l’incendio simulato del Castello Aragonese ed ancora con uno straordinario spettacolo di fuochi d’artificio che si possono vedere anche dalla vicina isola di Procida e da quella più lontana di Capri.

Vi assistono migliaia di turisti e di isolani seduti sugli scogli del pontile aragonese o nelle barche che a centinaia si posteggiano in questo meraviglioso specchio d’acqua dove la natura si confonde con la storia e non sai chi prevale.  

La festa nacque nel 1932 per iniziativa di un gruppetto di amici. Racconta nelle sue memorie, Michelangelo Patalano, uno dei promotori che “avevamo notato negli anni precedenti che la sera del 26 luglio parecchie barche di pescatori con a bordo le famiglie si recavano a recitare il Rosario davanti alla chiesetta di S. Anna dopo di che si consumava a mare una cena a base di coniglio e di melanzane alla parmigiana e pensammo di formare un comitato per una sfilata di barche addobbate e lampade sulle colline di Campagnano e di Soronzano”. Patalano ed i suoi amici non immaginavano che stavano portando alla luce antiche tradizioni e consuetudini, memorie legate ai luoghi e alla loro storia. Nel corso degli anni sono cambiati i temi delle barche addobbate – dalla canzoni napoletane alle antiche tradizioni isolane – ma è rimasto sempre lo stesso spirito.

“La baia di Cartaromana è uno specchio d’acqua, dove nel tempo gli Ischitani hanno trasposto in segni di espressività rituale il ciclo intero della loro vita: la nascita, con la processione delle partorienti alla chiesetta di Sant’Anna, la condivisione del pasto a mare nelle sere d’estate, che è la consuetudine da cui ha avuto origine l’idea di addobbare le imbarcazioni, sviluppatasi poi negli anni fino a definirsi nella sfilata delle barche allegoriche, e ancora l’addio alla vita, con la consuetudine del funerale per mare, che aveva nel cimitero colerico di Sant’Anna il suo approdo e che ispirò ad Arnold Böcklin il suo dipinto più famoso, L’isola dei morti”.

La Festa si svolge nel “cielo” di una città sommersa, l’antico porto romano di Aenaria, già noto dalle fonti letterarie e storiche, e i cui resti archeologici sono stati scoperti grazie alle recenti campagne di scavo.

Come ogni Festa, l’evento, nel suo svolgimento, recupera ed esalta la trama di relazioni spaziali e simboliche dei luoghi: il legame tra la Torre di Sant’Anna, meglio nota come Torre di Michelangelo, e il Castello Aragonese come contrapposizione della Villa rinascimentale al contesto fortemente urbanizzato dell’insediamento sull’Insula minor, il rapporto tra la collina di Soronzano e il Castello Aragonese come tra rilievi che si fronteggiano, l’alterità fortemente simbolica della Chiesetta di Sant’Anna e del cimitero rispetto al Borgo di Celsa, la natura liminare degli scogli di Cartaromana” continua Ronga.

Da tempo si vuole porre particolare attenzione al rapporto tra la città sommersa di Aenaria e la baia con le sue pregevolezze storico-artistiche, sia attraverso la realizzazione di itinerari culturali che nei giorni precedenti alla celebrazione della Festa consentano di visitare i luoghi (visite guidate, sistema di pannelli informativi, incontri culturali e spettacoli), sia disegnando nella struttura narrativa stessa dell’evento un percorso che promuova la diffusione e la conoscenza del sito archeologico.

La Festa si caratterizza per la sfilata delle barche allegoriche. Sono macchine sceniche galleggianti che s’ispirano a temi legati all’isola. Artisti, scrittori, musicisti e studiosi, che hanno frequentato l’isola e l’hanno raccontata nelle loro opere sono gli autori dei temi delle barche. Grazie ai loro scritti, appositamente elaborati per le barche allegoriche, queste personalità del mondo della cultura e dell’arte diventano testimoni, ultimi viaggiatori sulle orme del Grand Tour. Sono stati scelti quattro autori che hanno scritto di Ischia Vinicio Capossela, Erri De Luca, Elio Marchegiani e Andrej Longo ai quali dovranno ispirarsi i costruttori delle 4 barche in gara mentre ci saranno altre tre barche fuori concorso.
“Le barche allegoriche sono realizzate da gruppi di artigiani, carpentieri e artisti, che rappresentano identità locali fortemente caratterizzate, “isole” riconoscibili per storia, tradizioni ed economia, lungo un percorso dal mare alla montagna carico di suggestioni storiche e letterarie, sulle tracce dei fuochi accesi anticamente in onore di Sant’Anna, dalla cima dell’Epomeo fino alla baia di Cartaromana”.

La sfilata delle barche allegoriche è una competizione. Una giuria, composta da esperti nel campo artistico, scenografico e architettonico, giudica e premia le barche stilando una classifica, in base alla quale i gruppi partecipanti ricevono un rimborso spese per la realizzazione della macchina scenica.

 Ad aprire questo anno la serata del 26 luglio  ci sarà una sfilata di alcune barche allegoriche fuori concorso. Saranno installazioni galleggianti che illustreranno aspetti della storia della Festa, richiamando quelle tradizioni che nel corso degli anni hanno dato origine alla sfilata delle barche allegoriche. Le  strutture, inoltre, rievocheranno anche l’evoluzione storica della barca allegorica: dal gozzo alla zattera.

Le installazioni artistiche saranno collocate nei giorni precedenti alla sfilata (a partire da mercoledì 23 luglio) a Piazzale Aragonese e a Piazzale delle Alghe, disegnando, con l’ausilio di pannelli e didascalie, un percorso che illustrerà anche l’evoluzione della barca allegorica nella sua struttura portante, dal gozzo alla zattera. Saranno poi calate in mare nel pomeriggio del 26 luglio, realizzando un rituale di grande suggestione.

L’evento si conclude sempre con lo spettacolo di fuochi che coinvolge tutta la baia. Le numerose “lampetelle” poste sugli scogli di Sant’Anna, sui bastioni del Castello aragonese, sui merli della Torre di Sant’Anna, sui balconi del Borgo, disegnano una cornice scenografica di grande suggestione. Lo spettacolo dei fuochi e l’incendio simulato del Castello aragonese recuperano la memoria del cannoneggiamento dell’antica città sullo scoglio da parte degli Inglesi sulla collina di Soronzano agli inizi dell’Ottocento. E’ questo un momento spettacolare, tradizionalmente atteso dal pubblico che si assiepa sugli scogli e sulle imbarcazioni intorno allo specchio d’acqua della baia, che trasforma l’isolotto del Castello in una macchina scenica galleggiante, la più grande e poetica delle barche allegoriche.

Achille della Ragione

Il ritmo frenetico della ‘ndrezzata, 
una tarantella armata
La stessa parola tarantella richiama alla mente Napoli, anche se, secondo autorevoli studiosi, deriva da una tarantella ballata nelle Puglie che, secondo la credenza popolare, serviva a liberare dal veleno iniettato dal morso della tarantola.

Ben presto la tarantella napoletana acquistò una sua precisa autonomia, divenendo una danza caratterizzata da precisi movimenti segnati da ritmica gioiosità e  da una evidente allusività erotica, che ne ha fatto per due secoli uno dei balli più popolari del mondo.

Bisogna precisare che il tarantismo rinvia ai culti orgiastici dell’antichità greca nei quali la musica ha una funzione catartica in linea con le pratiche culturali del dionisismo; poi, con il predominio del cristianesimo, si determinò una crisi degli orizzonti mitico rituali del mondo antico, a tal punto che vi fu una polemica tra San Paolo e la Chiesa di Corinto, che praticava una liturgia che tendeva eccessivamente al raggiungimento dell’estasi.

Le pulsioni represse durante il medio evo trovarono nella danza sfrenata seguaci in tutta Europa, come i danzatori di San Giovanni e di San Vito ricordati da Nietzche nei suoi scritti.

Il tarantismo è da interpretarsi come l’esorcismo coreutico musicale dell’eros represso, quell’eros che poteva manifestarsi liberamente nell’orgiasmo pagano e che in epoche successive era costretto ad utilizzare travestimenti simbolici e differenti modalità di estrinsecarsi. A Napoli nel 1721 l’illustre medico Cirillo identificò nell’Ospedale degli Incurabili un caso di tarantismo che riuscì a guarire attraverso l’intervento di suonatori da lui convocati. E passiamo ora alla nostra tarantella, non più danza di possessione bensì danza di costume. Sotto il profilo musicale dobbiamo rilevare una  sostanziale differenza tra il tarantismo pugliese, che ha un tempo pari, e la tarantella, nella quale il tempo dispari crea un ritmo più svelto e brioso. Accenniamo infine all’ipotesi sostenuta dallo studioso Renato Penna che fa derivare la tarantella dalla fusione del ballo  di Sfessania, di origine moresca, con ilfandango di origine spagnola. Per quel che riguarda gli strumenti d’accompagnamento vi è il predominio di quelli a corda ed a percussione (calascione e tamburello) su quelli a fiato con l’introduzione  di nuovi strumenti autoctoni come il putipù, lo scetavajasse, ‘o siscariello e il triccaballacco.

Inoltre, nella tarantella la gestualità viene scandita in tre fasi: in piedi, caduta al suolo e movimenti a terra, oltre ad altri  passi e figure d’incerta origine.

Ne esistono due forme: una semplice, ballata da sole donne, ed una complicata, in cui si esibiscono anche gli uomini. La tarantella, come raffigurano numerosi dipinti, veniva ballata dal popolo in occasioni importanti come la festa della Madonna dell’Arco, quando i partecipanti si scatenavano in maniera talmente eccitata da far esclamare al Mantegazza che essa gli ricordava, per lo sfrenato erotismo, le orge di alcune popolazioni selvagge. All’epoca del Gran Tour essa viene illustrata più volte dagli artisti che accompagnavano i ricchi visitatori, come il nobile Bergeret de Grancourche portò con sé in Italia il sommo pittore Fragonard. La tarantella ritorna anche in numerosi immagini del Voyage pittoresque dell’Abbè De Saint-Non, pubblicato a Parigi nel 1781. Seguì poi, ad uso dei forestieri meno danarosi, una vera e propria produzione in serie di immagini da riportare in patria come souvenir.

 Di nuovo abbiamo però rappresentazioni della tarantella eseguite da artisti famosi come Angelica Kauffman, Filippo Palizzi ed Edoardo Dalbono, che ci forniscono una serie importante d’informazioni sulla classe sociale ed il sesso dei ballerini, sull’ambiente dove si svolge, sugli strumenti musicali d’accompagnamento, sulle gestualità più comuni. Abbiamo anche testimonianza di una tarantella tra femminielli.

Anche la letteratura ci fornisce descrizioni accurate della tarantella, soprattutto da parte di autori stranieri, che costantemente sottolineano le valenze erotico sessuali della danza.

Valenti musicisti sono stati attirati dall’energia che sprizza vigorosa dai movimenti dei ballerini. Tra questi  possiamo citare Ciaikovsky che conclude il Capriccio Italiano op.45, tutto luminoso e vibrante, con una trascinante tarantella, oppure Stravinsky, autore nel 1919 del balletto Pulcinella, che si compone di più brani, uno dei quali, appunto, è una tarantella, o, andando a ritroso, la celeberrima Tarantella di Rossini, cavallo di battaglia, ancora oggi, dei più importanti cantanti lirici. Nell’ultimo secolo il celebre ballo, da fenomeno di costume popolare, si è trasformato in attrazione turistica e solo nell’area sorrentina e nelle isole del golfo si possono, raramente, ammirare esibizioni spontanee.

Tra i libri, che cercano di conservarne viva la tradizione, fondamentale è il testo di Max Vajro, pubblicato nel 1963 per conto dell’Azienda di Soggiorno e Turismo di Sorrento oltre al volume, edito nel 1967 dal Touring Club Italiano, dedicato ai balli popolari.

Vogliamo ora, dopo questo lungo preambolo, ricordare una rarissima forma ballata ancora oggi a Barano d’Ischia: la ‘ndrezzata, una tarantella armata in cui gli uomini brandiscono bastoni, ricordata anche in un celebre film di Pieraccioni, che si pratica il lunedì dell’Angelo a Buonopane, perché a differenza di altri eventi, non è ispirata alla risurrezione di Cristo, ma simboleggia un momento di pace e la fine delle ostilità tra gli abitanti di due frazioni: Barano e Buonopane.

Si racconta infatti che intorno al 1500 un pescatore baranese aveva regalato alla propria fidanzata una cintura di corallo, ma questa un giorno venne trovata nelle mani di un giovane di Buonopane. La lotta che ne seguì non si limitò soltanto ai due, ma coinvolse la popolazione di entrambi i paesi. Dopo scontri sanguinosi, la pace avvenne ai piedi della statua della Madonna della Porta, nella chiesa di San Giovanni Battista, il lunedì in Albis. Da allora questo ballo popolare si ripete il giorno della Pasquetta e il 24 giugno in onore del Santo Protettore, San Giovanni Battista. L’origine della danza si intreccia con altre tradizioni che alimentano e rendono vivace il folklore isolano. "A mascarata", "Ndrizzata" e "A vattute e ll'astreche" erano le danze popolari legate ad alcuni momenti della comunità ischitana, oggi divenute danze folkloristiche grazie alla nascita di gruppi specializzati. Secondo alcune fonti "A mascarata" ha origini greche, secondo altre spagnole in quanto si ballava in alcune sue località il giorno di Pasquetta o in occasione della festa di San Giovanni, tra l'altro Santo patrono di Buonopane.

Ci sono diverse ipotesi che riguardano la genesi del ballo. Quella che unisce mito e leggenda sostiene che la danza affonda le proprie radici nel 1500 in una faida tra gli abitanti di Buonopane e Barano. Il manoscritto, rinvenuto nella sacrestia della Chiesa di San Giovanni Battista a Buonopane, documenta la venuta del Vescovo per placare la lite tra due abitanti dei rispettivi paesi nata per la contesa di una ragazza. E' dal lontano 1540, che il lunedì in Albis, a Buonopane, si ripete questa tradizione.

Altre fonti, sicuramente più attendibili, definiscono il ballo " 'Ndrizzata" e risalgono al primo dopoguerra. In questo periodo un numero considerevole di buonopanesi, spinti dalla povertà, emigrarono negli Stati Uniti. A New York, un gruppo di oltre centosessanta  persone iniziò a ballare la danza che fu subito repressa dalle autorità statunitensi perché interpretata come addestramento di un gruppo sovversivo filo-comunista. Questo causò l'immediata espulsione dei ballerini, che una volta rimpatriati ripresero la tradizione definendo la danza "Mascarata" per la mancanza di un costume ufficiale, in quanto non si disponeva di mezzi economici per realizzarlo. Solo negli anni '30 comparve il primo, costituito principalmente da tessuti modesti come canapone, seta grezza e lana, che attingevano agli abiti dei pescatori del '600.

Nel 1941, il gruppo di allora si recò alla Reggia di Caserta. L'esibizione fu riportata nel libro di Maria Bianca Galante, pubblicato nel 1943 dall'Università di Roma in cui furono descritti, nei minimi particolari, la danza, il costume e la disposizione dei ballerini. Durante gli anni '50 la danza diventò un connubio tra diversi balli praticati sull'isola, assumendo il nome di " 'Ndrezzata", che ancora oggi è eseguita dal "Gruppo Folk 'Ndrezzata". Figlia della "Trallera" per la presenza della serenata del paesino collinare di Fontana, della "'Ndrizzata" di Campagnano per la predica, della "Intrecciata" di Forio per i costumi da pescatore e della "Mascarata" di Buonopane per il ballo. Anche il costume cambiò radicalmente con l'utilizzo del velluto e del tricolore italiano. Le donne furono rigorosamente escluse . Solo dal 1983, grazie alla nascita della "Piccola 'Ndrezzata" è stato  possibile ballare la danza nuovamente tra coppie miste. Con la nascita della "Scuola del Folklore", nel 1997, è stata ripresa quella cultura popolare infangata in passato, realizzando la danza con gli  stessi costumi e la stessa struttura che la caratterizzavano nella prima metà del '900. 'A Vattute e ll'Astreche, invece, deriva dall'usanza di costruire fino agli anni '50 i tetti delle case a botte o a forma di piccole cupole emisferiche, dette a carusiello, attingendo dalla cultura architettonica greco-araba. Le case che oggi si costruiscono in cemento armato e spesso lasciano spazio a storie di abusivismo e devastazione, prima venivano realizzate secondo canoni ben precisi. La sagoma veniva preparata con un'intelaiatura di pali di castagno su cui venivano appoggiati i "penicilli" (fasci di viti secche), che si ricoprivano con un manto di creta (argilla o altro materiale lavico) e pietra pomice (pietre vulcaniche leggere, ma forti e compatte). Terminata questa fase, il proprietario issava di buon'ora una bandiera: era il segnale con cui si chiamavano a raccolta parenti, amici, vicini, compagni. Tutto il paese era coinvolto e felice di dare il proprio contributo alla realizzazione finale della nuova abitazione. Coloro che partecipavano, portavano un puntone, un palo di pioppo con una parte più larga, che serviva per comprimere il lapillo bagnato da calce bianca viva, fino a renderlo impermeabile. Tale fatica durava per tre giorni, giorno e notte ininterrottamente , ore che i puntunari scandivano cantando, raccontando aneddoti o intonando filastrocche. Chi sapeva suonare uno strumento accorreva. Si iniziava con un canto propiziatorio Jesc sole, si passava a quello Saluta allu padrone, per giungere al pettegolezzo principe del paese Nu sacce che succise a Murupane. Poiché molti erano omonimi, il capo mastro dava il ritmo chiamandoli per soprannome. Se il bere e il mangiare tardavano ad arrivare si era soliti ricordare che una volta completato il tetto si usava buttare del grano di tanto in tanto per evitare la comparsa di piccole fessure.

Nel frattempo, le donne, accorse numerose, si dilettavano in cucina preparando pietanze prelibate. Finita la grande abbuffata si iniziava a ballare tammurriate e tarantelle, cantando per un'intera giornata. Il popolo era felice perché un altro concittadino era riuscito a costruirsi un tetto e quindi il nido dove far prosperare la propria famiglia.

Ritorniamo ad esaminare la genesi della ‘ndrezzata che racchiude l’anima di Ischia, dove si balla, si beve e si fischia….come recita un detto popolare napoletano.

Non sono chiare le origini di questa danza, per alcuni è un poemetto nato nel medioevo  di tipo bellicoso e guerresco. Ma le origini del canto appaiono ben più remote, strettamente connesse al retaggio mitico della cultura greca che si era andata diffondendo a Ischia grazie ai primi coloni di Pithecusa.

Le fonti storiche disponibili sono due: un testo custodito nella Biblioteca Antoniana di Ischia dove è citata un'ode del 1600 di Filippo Sgruttendio, in voga nel beneventano: "a Cecca - invito a vedere la Ntrezzata" ed  un manoscritto, rinvenuto nella sagrestia della chiesa di San Giovanni Battista a Buonopane, una frazione del comune di Barano d’Ischia  in cui si racconta dell'intervento del Vescovo al fine di dirimere una controversia tra gli abitanti della contrada di Buonopane e quelli di Barano. Si racconta che due uomini, Rocc'none di Barano e Giovannone di Buonopane, corteggiavano la stessa donna. Rocc'none era un marinaio e in uno dei suoi viaggi aveva acquistato una per farne dono alla donna amata. Nessun altro possedeva quella fusciacca, così quando l'innamorato tradito vide Giovannone indossarla, lo sfidò a risolvere la faccenda tra uomini presso il ponte che divide i due paesi. Intorno al 1930 fu realizzato il primo costume, inspirato al passato della gente comune, per lo più pescatori. I tessuti erano poveri e per risparmiare la stoffa le maniche delle camicie vennero cucite al panciotto di tela, assicurato da una doppia fila di bottoni; i pantaloni arrivavano sotto le ginocchia, con stringhe allacciate all'estremità e per finire venivano calzati sandali di cuoio. Il mito antico legato alla ‘ndrezzata invece racconta di che Zeus trovò un giorno Demetra furibonda e disperata perché Ade, dio dell'Averno, le aveva rapito la figlia Persefone. Mosso da pietà verso la povera madre, il capo degli dei le inviò le Muse e Afrodite per placarne l'animo, allietandola con musica e danze. Tradizione vuole che la danza fosse praticata dalle Ninfe al ritmo di spade di legno battute dai Satiri su rudimentali manganelli che accompagnavano la melodia prodotta dalla cetra d'oro di Apollo. Apollo, pizzicando la cetra, si innamorò della ninfa Coronide e dall'unione dei due nacque Esculapio. Appagato dall'amore con la ninfa, il dio concesse alla sorgente Nitrodi, lì dove si svolgevano le danze, la proprietà di offrire bellezza e guarigione. La cultura della danza si diffuse ben presto in tutta l’isola, trovando terreno fecondo presso la sorgente di Nitrodi a Buonopane, vicino Barano, zona agricola sul versante sud-orientale di Ischia e divenendo un elemento caratterizzante del folklore locale. Per via di tutti questi elementi carichi di fascino, mistero e leggenda la ‘ndrezzata non può essere considerato un semplice ballo ma è da ritenersi un vero e proprio rito, composto da tre fasi distinte:  sfilata, predica e danza. Ciascuno dei 18 danzatori tramanda ai propri discendenti i segreti della danza e il privilegio di parteciparvi. Durante la sfilata metà dei danzatori entra in scena con un giubbetto di colore rosso, che rappresenta gli uomini, mentre l'altra metà indossa un corpetto verde che simboleggia le donne. Alla testa del gruppo sfila il caporale, al suono di due clarini e due tammorre, un tempo flauti e fischietti.

Al termine della sfilata i gruppi di danzatori formano due cerchi concentrici, impugnando, proprio come i fauni della leggenda, un mazzariello nella mano destra e una spada di legno in quella sinistra. Agli ordini del caporale e al ritmo dei suonatori parte la danza, che ricalca le mosse di base della scherma: saluto, stoccate, parate e schivate. All'interno della danza due sono le figure fondamentali: la formazione della rosa con l'intreccio delle mazzarielle a mani alzate e l'elevazione  su di essa del caporale, che in antico dialetto ischitano recita la parte narrata (predica): le strofe sono dedicate all'amore, alla paura dei saraceni, alle fughe sul Monte Epomeo, alla difficoltà del lavoro nei campi e alla A vattut´ e ll´ astreche, cioè alla costruzione del tetto bombato in pomice e calce delle abitazioni di Ischia e Procida. Per ammirare questa danza l’appuntamento principale è la festa di San Giovanni Battista a Buonopane, frazione di Barano d’Ischia alla fine di giugno.                Achille della Ragione

 Acque miracolose, Lourdes? 
No terme ischitane
Lucia Beringer



Napoli e provincia, per la presenza di due distinti vulcani, sono ricchissime di acque termali che, a seconda della composizione, sono dotate di prodigiose virtù curative per le più svariate patologie, un grandioso patrimonio sottoutilizzato che potrebbe trasformarsi in una grande risorsa economica. Sin dal medioevo Pozzuoli e Baia, per la caratteristica peculiarità delle loro acque, ad uso della balneoterapia, vennero alla cronaca attraverso una sorta di “Guida” che costituiva non solo una localizzazione delle fonti naturali ed attive che esistevano in quel tempo nel territorio flegreo ma, soprattutto, ne indicava l’utilità nei rimedi per combattere qualsiasi genere di dolore. Il testo, che è considerato tuttora un valore documentale della medicina medioevale, sia per le scienze che per la terminologia e la pratica attuativa, è il codice  pergamenaceo “De balneisPuteolanis” attribuito a Pietro Anzolino da Eboli, un chierico della corte di re Manfredi, forse medico, testo che si fa risalire alla scuola medica campana operante tra il 1258 ed il 1266, che già prima di questa pubblicazione godeva di una notevole fama. Il prezioso codice, che comunque ha subito nel tempo la mutilazione di diciotto carte miniate descriventi trenta bagni, è conservato in pochissimi esemplari in alcune biblioteche tra le quali la Biblioteca Angelica di Roma, dove abbiamo potuto consultarlo con grande interesse. In esso sono descritte una serie di terme, molte delle quali non ancora esaurite.L’isola verde, per la presenza dell’Epomeo, attivo fino ad alcuni secoli fa, possiede una varietà infinita di acque in grado di curare le più svariate affezioni.Quelle sulfuree, localizzate soprattutto nella zona di Sant’Angelo, a fronte di un aspetto pocoinvitante, dal verdastro al giallognolo, dovuto all’ossidazione dello zolfo, vengono adoperate per le affezioni cutanee, ginecologiche e respiratorie. Io stesso posso testimoniare che, dopo un bagno nelle piscine dell’Apollon, che possiede anche saune umide in antiche grotte romane, uscivo completamente rinfrancato dalla rinite allergica e con il naso completamente liberato.

Nella zona di Casamicciola e Lacco Ameno vi sono poi sorgenti radioattive che costituiscono un formidabile toccasana per ogni tipo di dolore artrosico o artritico. Molti alberghi ne potenziano l’effetto terapeutico adoperandole sotto forma di fanghi ed anche in questo caso i grandi hotel hanno come clienti, oltre ad imprenditori e professionisti, atleti di svariate discipline.Tra i clienti celebri possiamo ricordare lo stesso Garibaldi, reduce dalla ferita al piede, che si beccò nella battaglia d’Aspromonte, grazie ad una fucilata piemontese. La sua permanenza per molti giorni fu resa pubblica dalle corrispondenze di molti giornali napoletani come “Il Pungolo”, ed il periodico “Lo corpo de Napule e lo Sebbeto”, redatto in vernacolo, ed indussero molti napoletani a recarsi sull’isola in cerca di un rimedio alle loro malattie al punto che i battelli emettevano un biglietto comprensivo del trasporto e della cura termale.

Prima di parlare ancora a lungo delle acque ischitane, incluse quelle della  piscina della mia villa: oligominerali, sgorganti a 55 gradi, accenniamo a quelle veramente miracolose del “Gurgitello”, già conosciute dagli antichi Romani che le utilizzavano per rimarginare le ferite. Esse sono dotate, a parte uno scarso contenuto di minerali, di una particolare tensione superficiale che produce un effetto simile a ciò che accade a Lourdes: uscire completamente asciutti dopo una doccia. I primi e più prestigiosi centri termali dell’isola di Ischia sorsero a Casamicciola dove già nell’800 le famiglie patrizie trascorrevano lunghe vacanze in stazioni termali sorte accanto alle ricche sorgenti di acqua calda. Una delle fonti di Casamicciola nota fin dalla antichità romana per le sue acque miracolose è quella del Gurgitiello. Tanto incredibili le proprietà di questa sorgente termale che accanto agli studi scientifici dedicati al Gurgitiello dai primi studiosi del termalismo isolano, furono create delle fabule mitiche . Una di queste narra la favolosa origine della falda acquifera dalle lacrime di un satiro innamorato. La riporta De Quintiis in un suo libro del 1726 intitolato "Poetica origine del Bagno del Gurgitello in Casamicciola dal poema Inarimeseu de balneisPithecusarum. Il satiro è Teleboo ed è innamorato di una ninfa, ma non può averla, col cuore trafitto si aggira per l’isola piangendo, si ferma a Casamicciola è qui per una di quelle straordinarie metamorfosi che accadono soltanto nei racconti mitici le lacrime copiose danno vita ad una fonte, una fonte calda come il cuore appassionato di Teleboo.

L'Isola d'Ischia, già ricchissima di sorgenti di acque termali dalle innumerevoli virtù terapeutiche, gode anche di una fortunata collocazione geografica che assicura all'intero territorio isolano condizioni climatiche ed ambientali ideali per ritemprare il corpo e lo spirito: le balze rocciose dell'Epomeo, le dolci colline coltivate a vigneto, le riposanti pinete, la fresca  brezza marina, le spiagge ed i tanti, suggestivi, panorami fanno dell'antica terra di Inarime una sorta di dolce giardino incantato dove godere degli effetti benefici delle fonti dell'eterna giovinezza. Miniere d’oro, così il medico Giulio Jasolino aveva ribattezzato le sorgenti termali dell’isola d’Ischia in un celebre volume del 1588. E non poteva non essere giudizio più attendibile, visto che lui a quelle acque benefiche aveva dedicato lunghe ed approfondite ricerche per anni. Queste gli avevano consentito di individuare i 29 bacini termali da cui scaturiscono le 103 sorgenti diffuse sul territorio isolano. Già Jasolino aveva dimostrato che ogni sorgente presenta proprie peculiarità e proprietà curative, come poi sarebbe stato verificato anche dai nostri ricercatori contemporanei. Erano stati per primi i Romani, grandi fruitori delle terme, ad accorgersi di quella particolare ricchezza dell’isola, conseguenza della sua origine vulcanica. Ma proprio l’intensa attività sismica ed eruttiva che raggiunge il suo acme in quell’epoca, impedì che i Romani costruissero delle Terme.

Comunque dei benefici delle acque usufruivano gli abitanti dell’isola, che frequentavano la sorgente di Nitrodi, nel territorio di Barano. Una fonte miracolosa immersa in una natura selvaggia che gli antichi identificavano con la dimora delle Ninfe Nitrodi, cui dedicarono dei bassorilievi votivi. E c’è poi Cavascura sempre nel comune di Barano. Un luogo che ancora oggi evoca profonde suggestioni, con le vasche scavate nella roccia dove scorre l’acqua, che acquista le sue qualità curative dal contatto col fuoco che cova nelle profondità dell’isola.

Che le terme siano una “scoperta” degli antichi romani è cosa nota, ma non tutti sanno però che sull’isola di Ischia vi sia un luogo rimasto intatto dall’epoca in cui imperatori e senatori romani si recavano per prendersi la loro dose di “otium e benessere”. Questo magico posto si trova sulla spiaggia dei Maronti, il suo nome è “ Cavascura”

Gli appassionati di geologia non potranno non ammirare nel percorso che dalla spiaggia li conduce alla zona termale la bellezza delle chiare pareti rocciose scolpite dagli agenti atmosferici di questo piccolo canyon, mentre il sentiero si snoda circondato da piante spontanee, canne e papiri.

Qui in questa cava vi è una delle più grandi fonti di acqua termale dell'isola: la Sorgente della Cava Scura. Qui immutate, da secoli, le vasche scavate nel morbido tufo ischitano dove immergersi per un bagno termale che è anche un passaggio indietro nel tempo, qui la sauna naturale in una grotta profonda e caldissima, qui le vasche fredde dove gettarsi con energia dopo saune e bagni caldi.Qui nel tempio del benessere naturale la vigorosa cascata di acqua tiepida da farsi scivolare su tutto il corpo per una sferzata di puro termalismo. E come gli antichi romani godendo vi rimetterete in sesto, magari scegliendo di potenziare le cure termali con un benefico massaggio rilassante o drenante, anticellulite o rivitalizzante: ma attenzione qui l’arte del massaggio ha solo duemila anni!

L’acqua curativa può anche essere bevuta, come nel caso di Nitrodi, e giovare alle malattie all’apparato digerente, dei reni e delle vie urinarie. Oppure si possono fare i bagni, particolarmente indicati per le malattie della pelle, reumatiche, del sistema nervoso, degli apparati circolatorio e urogenitale.

Ma Ischia è famosa soprattutto per i fanghi, utili alle forme reumatiche e in ginecologia. L’argilla viene messa a maturare per sei mesi in vasche contenenti acqua minerale, rigorosamente controllata nella sua purezza, e il fango così ottenuto viene poi applicato sulla parte bisognosa di terapia. Sempre la acque termali vengono utilizzate per cure inalatorie che curano le infiammazioni croniche delle vie aeree.

Lo sfruttamento delle acque termali sull’isola risale ai primi decenni del Seicento, a Casamicciola, dove si trovano due dei migliori bacini termali, quello de La Rita e soprattutto quello del Gurgitello, a poca distanza dalla costa. Sorsero in quella cittadina, decretandone una veloce crescita. Fu l’inizio del turismo sull’isola, che doveva svilupparsi soprattutto nel secondo dopoguerra. Rizzoli rilanciò il termalismo ischitano negli anni ’50, costruendo dei grandi alberghi dotati di terme sul litorale di Lacco Ameno, lì dove sgorga la sorgente della Regina Isabella. Da allora la capacità recettiva di Ischia è cresciuta senza sosta. Oltre 300 strutture alberghiere, in gran parte dotate di proprie terme di piscine di acqua calda, rappresentano una realtà all’avanguardia in Europa, testimoniata dalla modernità degli stabilimenti termali.
Notevole il livello dei servizi offerti alla clientela nelle strutture ischitane. Le cure tradizionali si accompagnano a massaggi, fisioterapia, ginnastica correttiva e riabilitativa, sauna. Secondo una tendenza sempre più accentuata, le terme sono diventate luoghi di recupero psico-fisico dell’individuo. Così anche sull’isola sono nate presso le strutture alberghiere più attrezzate beauty farm che coniugano i bagni termali con fitness, cura dell’alimentazione e trattamenti estetici. Il tutto sfruttando i vantaggi di un ambiente salubre e ecologicamente sano, in grado di favorire un soggiorno tranquillo e piacevole.
L’isola d’Ischia è l’unico luogo al mondo in cui la natura e l’impegno dell’uomo hanno saputo creare quelle meraviglie che sono i parchi termali, tra cui i più grandi: Giardini Poseidon, Parco Termale Negombo, Parco Termale Castiglione. Nei luoghi più panoramici dell’isola, offrono ai loro visitatori piscine termali di diverse gradazioni incastonate in lussureggianti giardini, spiagge private, reparti per le cure tradizionali e servizi di alto livello.
La padrona dei Giardini di Poseidon, il più grande parco termale d’Europa, è una giovane architetta, Lucia Beringer, figliola di Anton Staudinger che li acquistò dal magnate tedesco Ludwig Kuttner. Sposata con una figlia, ha esercitato la professione a Monaco, mentre ora fa la pendolare tra Ischia e la Germania. I suoi nemici le rimproverano i modi da generale e una rigidità prussiana. Gli estimatori ne lodano il rigore e l'amore per l' Italia. Lucia Beringer in Germania era un affermato architetto noto per aver realizzato il Trias, un moderno complesso di tre torri che si staglia nel cuore della capitale. Poi ha lasciato il suo studio di progettazione a Monaco di Baviera. ha cambiato vita e mestiere: se n'è venuta a Ischia per occuparsi a tempo pieno del più grande parco termale d'Europa. Terza dei cinque figli di una famiglia bavarese con interessi in varie parti del mondo, Lucia sull'isola ci veniva già da ragazza per accompagnare il padre Anton, proprietario dei Giardini Poseidon di Forio. Ottimista di carattere, ha portato a Ischia nuove idee e si è tuffata a capofitto per realizzare i suoi progetti: dare ai Giardiniun' oasi di 60 mila mq ecologicamente intatta , un nuovo look con più alberi, fiori, viali, una nuova piscina coperta. Stando attenta a ogni dettaglio, ha rivalutato il tufo verde ischitano per i muretti di contenimento e trovato una mattonella per le 23 piscine che si disinfetta con la luce. Sicché ha trascorso l'intero inverno a lavorare dalle 6:30 di mattina alle 11 di sera, instancabile. 
Si sente parte napoletana ma non accetta alcune logiche che nel sud sono legge, come l’abuso degli ingressi gratuiti alle autorità. Si fa forte dell’esempio della Merkel, vecchia ed assidua frequentatrice dell’isola, la quale quando prende l’aliscafo paga il biglietto.
Nel breve tempo trascorso sull'isola, Lucia ha imparato a conoscerne i tanti difetti con lunghe passeggiate a piedi: le strade rotte, l'immondizia, il traffico caotico, la mancanza di parcheggi. Ma soprattutto si è resa conto delle potenzialità sprecate: «Qui pochi hanno una visione chiara del futuro. Eppure Ischia è una delle isole più belle del Mediterraneo e vive di turismo. Bisognerebbe difenderne le bellezze, non deturparle, invece molti non rispettano alcuna regola». 
Il rapporto con i dipendenti, tutti ischitani, è quello che sta dando le maggiori soddisfazioni alla manager. «I miei collaboratori all' inizio non mi conoscevano, poi hanno capito come sono fatta e di mattina, quando cominciamo il lavoro, c'è una bella atmosfera. Non sono una che comanda e basta. Cerco invece il dialogo e la collaborazione con gli altri. Ma per gestire un'azienda, alla fine, si devono avere idee chiare e prendere decisioni». Lucia non ha ancora deciso quanto tempo rimarrà a Forio: «Per ora faccio la pendolare tra la Germania e Ischia e sono contenta. Dell'Italia, che considero uno dei più bei paesi del mondo, mi piacciono la cultura, il mare, il cibo, la gente. E anche i poeti: sto leggendo le poesie di Ungaretti. Non mi piacciono invece certi modi di fare che sono in contrasto con l' educazione che ho ricevuto e col mio senso del dovere». 
Il suo sogno è creare con i Giardini di Poseidon un vero e proprio modello ambientale, che come per altre località italiane, quali ad esempio Saturnia, dove gli alberghi lavorano 12 mesi l’anno,  meriterebbe di stare sempre aperto e non da Pasqua a Novembre, creando ricchezza ed occupazione.Purtroppo un’arcaica normativa che regola i lavoratori stagionali non lo permette!!Chi è causa del suo mal pianga se stesso.
La baia di San Montano è una delle più belle dell'isola, nell'abbraccio di due verdi colline l'acqua di questo mare è verde come lo smeraldo. E un trionfo di natura, tra fiori, piante tropicali ed alberi mediterranei, è il parco termale Negombo. Dove l'acqua e l'arte sono protagoniste di un giardino delle delizie.
Elioterapia, massaggi, aerosol, inalazioni, piscine termali dotate di getti per idromassaggi; insomma tutto per rigenerare e regalare benessere, senza dimenticare che le acque termali possono essere efficaci in numerose affezioni dell’apparato osteo – articolare.
 L'attuale fisionomia del parco deve molto all'intervento appassionato di un celebre paesaggista. Il suo impegno è stato quello di creare un giardino profondamente ancorato alla millenaria cultura contadina del luogo e ricco di sorprese e soluzioni inaspettate: la vasca in cemento che ricorda i vasconi di raccolta dell'acqua piovana, la lastra in ardesia che ripropone i salti d'acqua, la cascata ispirata alle cadute di ossigenazione.
In questo giardino, luogo privilegiato del rapporto fra uomo e natura, il paesaggio rurale si integra con la magnificenza di piante provenienti dall'Australia, dal Giappone, dal Sudafrica e dal Brasile.  
Il parco del Negombodispone di un'arena di 1700 posti, animata, nelle serate estive, da concerti di musica classica, leggera e jazz.Vi si sono esibiti ,tra gli altri, Miles Davis e Mireille Mathieu, Tina Turner e Ray Charles, Arbore e Baglioni, Dalla e Morandi.
Una fonte antichissima alimenta le piscine del parco termale Castiglione, nel comune di Casamicciola. Un vero e proprio centro relax con panorami mozzafiato sul mare e sulla costa napoletana.
Si scende con una pittoresca funicolare dalla quale potrete osservare la bellezza del parco che ha 10 piscine di cui 8 termali, con varie gradazioni: dai 30 ai 40 gradi centigradi, percorsi Kneipp, sauna naturale, e reparto termale dove si possono effettuare fanghi, bagni, inalazioni, aereosol, massoterapia.Un ottimo ristorante proprio sul mare ed un bar ristorante self – service sono dei punti ideali per una pausa dolce o salata.
Al centro termale Castiglione troverete inoltre un pontile sul mare attrezzato con sedie sdraio e lettini. E per chi ama lo sport corsi di acqua gym in piscina.
Il Parco Termale Tropical è situato all'ingresso del famoso villaggio di pescatori Sant'Angelo d'Ischia, la parte più esclusiva ed incontaminata dell'isola a pochi passi dalla fermata dei bus di linea e dalla baia di Cava Grado. La posizione unica, rialzata su una collina a picco sul mare, offre un panorama incomparabile di S. Angelo e della famosa "Torre". Concedetevi un'immersione in un'oasi di relax.
Oltre alle 10 piscine ed altre strutture balneari, nel centro di benessere sotto controllo medico è possibile sottoporsi a numerose cure e trattamenti. Fisioterapia, massaggi, cure inalatorie, fango, trattamenti di bellezza, trattamenti antistress: affidatevi alle cure del nostro personale altamente specializzato per stabilire un programma personalizzato di trattamenti adatti alle vostre esigenze. Il Tropical offre numerose piscine termali di varie temperature che vanno dai 18 ai 40 C con acqua batteriologicamente pura, naturale, radioattiva e limpida. Già gli antichi romani erano a conoscenza delle miracolose proprietà terapeutiche delle acque dell'Isola d'Ischia, delle loro naturali capacità a lenire dolori di ogni genere. Le nostre acque termali sono particolarmente indicate per tutte le malattie dolorose e degenerative della colonna vertebrale, delle articolazioni, dei tendini, dei muscoli e dei legamenti. Così come per disturbi dei movimenti e della circolazione dopo ferite ed incidenti, per malattie della pelle e pelli impure. Sono inoltre efficaci per combattere disturbi neuro-vegetativi. Le sorgenti termali "Tropical" vengono catalogate dal Prof. Dr. Marotta e Dr. Sica nel catalogo delle sorgenti d'Italia come alcaline-salso-solfato-terrose. Il valore PH delle sorgenti è di 7,2. Queste acque incontaminate (alla sorgente di una temperatura fino a 98 °C) vengono fatte sgorgare in superficie da una profondità di oltre 100 m., raffreddate e filtrate con la più moderna tecnologia, in modo da poter offrire al visitatore acqua batteriologicamente pura e cristallina, conservando i minerali in essa disciolti.
Concludiamo con alcune considerazioni sui benefici dell’acqua”calda”.
I ritmi frenetici della modernità necessitano di opportuni palliativi, per cui, da alcuni anni, molti hanno riscoperto antichi riti rigenerativi, già largamente adoperati da Greci e Romani e diffusi anche nel mondo arabo con gli hammam. La nuova moda si è perciò trasformata in una sorta di pellegrinaggio laico alle fonti del benessere, cercando nell’acqua calda il rimedio contro il logorio dello stress.
Nell’antica Grecia i guerrieri dopo le battaglie curavano le ferite con acque cicatrizzanti sulfuree, in seguito i Romani, grandi costruttori di acquedotti, crearono nelle terme uno spazio pubblico dedicato a ritemprare il corpo e lo spirito.
Vi era un giorno dedicato ad immortalare i fasti di queste divinità liquide: i Fontanalia, il 13 ottobre, in ricordo delle quattro ninfe che custodivano un’antica fonte sacra dell’Elide.
Anche i grandi luoghi di culto dell’antichità sorgevano e prendevano energia dall’acqua e dai suoi vapori. Il tempio di Zeus ad Olimpia sorgeva presso una sorgente di acqua minerale, mentre il santuario di Apollo a Delfi si trovava a ridosso della fonte Castalia pregna di acque vaticinanti, dove i fedeli si immergevano, come oggi a Lourdes e dove la profetessa Pizia, dopo averne bevuto abbondantemente, si sedeva su una fenditura della roccia da cui uscivano vigorosi vapori, che la penetravano, ponendole in bocca parole divine. Quindi, posseduta, raggiungeva l’estasi orgasmica e prediceva il futuro.
Nell’Ottocento vi è un revival delle terme e sorgono moderni templi del benessere frequentati dalla ricca borghesia a Baden Baden, Karlsbad, Marienbad, Plombiers, Vichy ed ad Spa, cittadina belga, dal nome che è un acronimo del latino salus per acquam, da cui prendono nome gli attuali centri benessere. Anche in Italia diventano famose ed affollate località come Bagni di Lucca e Salsomaggiore ed a metà del Novecento Ischia con le sue molteplici acque dagli effetti miracolosi, che erano ben noti e sfruttati dai Romani.
Oggi, in un mondo stressato da impegni incalzanti, frequentare un bagno turco o sottoporsi ad un massaggio shiatzu, è divenuto un rito obbligato per liberarsi dalle velenose tossine provocate dai ritmici frenetici imposti dal consumismo, una liturgia obbligata e defaticante.
Spendere denaro, e tanto, è un po’ come sacrificare alle antiche divinità acquatiche per ottenere in cambio benessere e felicità. Una moda che ha contagiato anche l’universo dei fedeli, che si immergono speranzosi, non solo a Lourdes, ma anche nei tanti bagni dedicati a Madonne più o meno miracolose.
Non chiediamo più alle acque di conoscere il nostro futuro, bensì vogliamo preservare e migliorare il nostro presente, conservando la giovinezza. Come tanti insaziabili Narcisi cerchiamo la depurazione dalle scorie di un’alimentazione ipercolesterolemica e non più la purificazione dello spirito. Ai nostri giorni cerchiamo la resurrezione del corpo nelle maliziose offerte di un resort, ci sottoponiamo mansueti a robusti linfodrenaggi e ad ingurgitare tisane diuretiche. La nostra massima ambizione è salvare il corpo, incuranti del destino dell’anima, chiediamo al potere liquido la salute e non la salvezza, non vogliamo un’acqua santa che mondi i peccati, purché liberi dalle tossine.                   Achille della Ragione
    RESTAURATO PALAZZO CARAFA MADDALONI
UN GIOIELLO DELL'ARCHITETTURA 
DELLA CITTA'

Il sindaco Luig De Magistris

Palazzo Carafa Maddaloni ritorna all'antico splendore: dopo trent'anni è stato restaurato il bellissimo portale in piperno e marmo statuario realizzato da Cosimo Fanzago, grande esempio dell'architettura barocca napoletana realizzato da Cosimo Fanzago. Nel 2010 sono cominciati i lavori di restauro che oggi finalmente hanno riconsegnato al palazzo il portale che ne aveva arricchito il potenziale scenografico e simbolico, segnale della potenza della famiglia che lo abitava, e vero arco di trionfo che precede scenograficamente la visione del cortile e del loggiato sullo sfondo.
Via Caracciolo e Mergellina luoghi da favola
Il lungomare più affascinante del mondo

Celebrata nei secoli per la sua bellezza da pittori e poeti, la zona è stata completamente modificata dalle colmate che hanno avanzato la linea costiera nella seconda metà del XIX secolo, trasformando l'antica via Mergellina, che correva lungo la riva del mare a partire dalla Riviera di Chiaia, in una strada interna su cui affacciarono i nuovi palazzi di stile eclettico del viale Elena, oggi viale Gramsci. Mergellina (in napoletano Margellìna)  è una zona della città di Napoli, nel quartiere Chiaia, che si estende tra il largo Sermoneta e la Torretta, lambendo Piedigrotta e la Riviera di Chiaia. Si trova in riva al mare, ai piedi della collina di Posillipo. Il suo stesso nome è legato alla posizione sul Golfo: deriva infatti forse dal termine "mergoglino" (uccello acquatico), oppure prende nome da Mergoglino, un giovane pescatore che si era innamorato di una sirena.L'ultimo intervento sul lungomare di Mergellina fu negli anni Trenta del XX secolo, quando fu realizzata la colmata che permise il prolungamento di via Caracciolo (che divenne il nuovo lungomare di Mergellina) fino al largo Sermoneta e dunque a via Posillipo. Sulla colmata nel 1939 fu posta la fontana del Sebeto. Dal porticciolo di Mergellina (un tempo di pescatori, oggi turistico, con il molo Luise che funge da luogo di passeggio sul mare) partono quotidianamente gli aliscafi per le isole del golfo.Mergellina è caratterizzata anche dalle rampe di Sant'Antonio, sistemate dal viceré Medina de Las Torres nel 1643, che salgono dal limite nord di piazza Sannazaro e prendono il nome dalla chiesa di Sant'Antonio a Posillipo, situata sulla loro sommità.Sono inoltre presenti l'antica Fontana del Leone (detta anche del Mergoglino) lungo via Mergellina, l'ottocentesca Fontana della Sirena in piazza Sannazaro e la chiesa di Santa Maria del Parto, fondata (su un podere avuto in dono da Federico d'Aragona) dal poeta Jacopo Sannazaro, ivi sepolto. Il tempio si trova al di sopra di rinomati ristoranti meta per i buongustai della città e non, tra i quali spicca il rinomato Carminuccio a Mergellina celebre taverna di pescatori a conduzione familiare. Mergellina occupa lo spazio incluso tra l’inizio di via Posillipo e la fine della Villa comunale  nei secoli è sempre stato tra i più belli della città. Non è soltanto il nostro parere, ma anche quello di illustri poeti e scrittori del passato che lo hanno affermato, da Plinio a Tacito, da Boccaccio a Goethe, da D’Annunzio a Virgilio, che vi abitò stabilmente, scrivendo, ispirato dal clima dolcissimo e dal paesaggio irripetibile, le Georgiche, un inno immortale alla vita ed alla natura.Oggi purtroppo come tanti angoli della città è stato devastato dal traffico incessante, una serie infinita di bancarelle, i cartelloni pubblicitari ed una frequentazione poco raccomandabile. Un tempo vi erano soltanto laboriosi pescatori, con le loro barchette, indispensabile strumento di lavoro, sulla spiaggia ed allegri tarallari, che offrivano a napoletani e turisti i loro prodotti, appena sfornati, croccanti e saporiti.Via Caracciolo è la lunga e larga promenade di Napoli: un lungomare che parte da Mergellina e arriva a piazza Vittoria, fiancheggiando la Villa comunale e la Riviera di Chiaia, antica spiaggia della città. Il suo nome ricorda l'ammiraglio Francesco Caracciolo, eroe della Repubblica Partenopea, impiccato nel 1799 da Nelson all'albero maestro della sua nave e gettato nelle acque del golfo di Napoli, il cui cadavere riemerse e fu raccolto sul litorale di Santa Lucia.Solitamente strada a scorrimento veloce, ma con ampi marciapiedi per passeggiare, fare sport e respirare aria di mare, la strada si popola di famiglie, bambini, sportivi, saltimbanchi e artisti di strada nelle saltuarie domeniche in cui viene chiusa al traffico, e dedicata allo svago dei cittadini. Fino alla fine dell'800, il mare giungeva quasi fino ai palazzi della Riviera di Chiaia; poi si decise di colmare la spiaggia, creando questa nuova strada, dedicata all'ammiraglio napoletano del Settecento, uno dei personaggi della Rivoluzione del 1799. Le scogliere presero così il posto della sabbia, eccezion fatta per alcuni lembi di spiaggia sopravvissuti, in corrispondenza delle celebri rotonde. Creata su una colmata nel 1869-80, la grande strada è considerata una delle più belle litoranee del mondo e corre fino a Mergellina con visioni panoramiche sulla città e sulle colline del Vomero e di Posillipo.È separata dal mare solo da alcune scogliere artificiali, che hanno preso il posto delle antiche spiagge di cui restano solo alcuni frammenti in prossimità delle rotonde; un progetto del Comune di Napoli prevede per il futuro la ricostituzione dell'arenile. Dotata di ampi marciapiedi, veniva chiusa al traffico e dedicata allo svago dei cittadini la domenica. Attualmente, la strada è aperta al transito veicolare in entrambe le direzioni con due corsie per senso di marcia con annessa pista ciclabile sul lato mare. Il tratto di strada che va da Piazza della Repubblica fino alla confluenza di Viale Dhorn (comunemente chiamata "rotonda Diaz"), è dal 6 maggio 2013 area pedonale. A metà percorso si apre la rotonda Diaz, un ampio spazio circolare detto così per la presenza del monumento equestre al generale Armando Diaz, opera del 1936 di Francesco Nagni e Gino Cancellotti, affiancato da due grandi fontane circolari. Costruita nel 1883 è ritenuta una passeggiata da favola, non solo dagli indigeni, ma anche da illustri personaggi del passato e dai turisti, che ancora si avventurano a visitare la città.

In precedenza la costa era caratterizzata da un susseguirsi di piccole spiagge, anfratti rocciosi e piccole rade, mentre affianco alle poche casette di pescatori, dominavano solenni dei pini secolari. La città con la creazione della nuova arteria acquistò in modernità, ma dovette perdere un paesaggio bucolico impareggiabile.Un discorso a parte merita il mercatino dell’antiquariato, che si svolge in alcuni fine settimana nei vialoni della Villa comunale, un appuntamento vivace che, nato in sordina, ha conquistato in breve tempo la fiducia dei collezionisti napoletani e soprattutto ha fatto avvicinare alla passione per l’antico ampie fasce di neofiti. La merce esposta è la più varia: mobili e ceramiche, quadri e vasi, croste e cianfrusaglie, tappeti, statue, cartoline, manifesti, libri antichi e moderni, telefoni d’epoca e giradischi rotti, e chi più e ha più ne metta. Ogni tanto ci scappa l’affare per l’intenditore, più spesso capita l’imbrusatura per chi si avvicina per la prima volta a  questo tipo di mercatini. Gli espositori non sono solo napoletani, ma vengono da tutta la Campania ed anche da altre regioni. Qualche domenica, con il sole ed il divieto di circolazione, la folla è straripante e gli affari per i commercianti vanno a gonfie vele.I libri antichi dalle preziose copertine sono offerti in numerose bancarelle e l’occhio del conoscitore spesso riesce a fiutare il pezzo di pregio sfuggito allo stesso commerciante. Molto è anche il ciarpame e tutta una serie di cose inutili che sembra incredibile possa trovare un acquirente, ma molti sono i frequentatori di bocca buona ed alla fine ogni oggetto, se ha pazienza, trova la sua collocazione. Le vendite sono facilitate dall’atmosfera incantevole di una splendida villa baciata dal mare, l’elemento regolatore della visibilità e della vivibilità dell’intera città e della spettacolare via Caracciolo, la strada, senza false modestie, più bella del mondo.Via Caracciolo, la regina tra le strade napoletane, si sviluppa per buona parte del lungomare napoletano, congiungendo Mergellina alla zona di S. Lucia, protraendosi, pur cambiando denominazione, fino a via Acton. La zona di S. Lucia è una delle più belle ed eleganti della città di cui rappresenta un’efficace sintesi di storia e costume. Dall’isolotto di Megaride dove Lucullo imbastiva sfarzose tavolate con pranzi succulenti alla mole imponente del Castel dell’Ovo, fino al Chiatamone, al Pallonetto ed al Borgo marinaro palpitanti di vita, dove nell’Ottocento si accalcavano caratteristici venditori di acque sulfuree nelle originali mummarelle e di freschissimi frutti di mare.Un luogo dove nel nono secolo a. C. nasce la stessa città di Napoli, anche se l’aspetto odierno è quello determinato dalla coraggiosa colmata verso il mare, eseguita nei primi anni del Novecento, che ha permesso di acquistare spazio vitale. Ed inoltre una miscellanea di personaggi dalle dive del caffè chantant ai contrabbandieri, da impeccabili viveur ad artisti e scrittori, oltre a personaggi leggendari: Zi Teresa, Marotta e Ranieri ed i grandi della Terra riuniti nei grandi alberghi per il mitico G7.Riportiamo una nostra lettera, pubblicata dai principali giornali nazionali: “Amore, non 6 un sogno, ma una splendida realtà, perciò posso sognarti”, questa frase è incisa su uno scoglio di via Caracciolo e leggendola anche io ho voluto sognare ed ho immaginato la strada più bella del mondo trasformata in un’arteria ad otto corsie con una spiaggia lunga chilometri e decine di migliaia di bagnanti accorsi da ogni angolo della Terra a rosolarsi al sole. Un sogno malizioso, ma non proibito, che potrebbe diventare realtà con una spesa un decimo di quella preventivata per la bonifica di Bagnoli, se una volta tanto politici e mass media facessero fronte comune per assicurare alla città una risorsa prodigiosa in grado, oltre al prestigio planetario, di assicurare migliaia di posti di lavoro ed un futuro ai giovani costretti ad un esodo di dimensioni bibliche. E su questa bellezza che tutti ci invidiano, concludiamo, per la gioia dei neoborbonici, con una favoletta. Un bambino passeggia in compagnia dei genitori sul celebre lungomare e chiede al padre perché al famoso ammiraglio è stata intitolata una strada così importante. “Perché era un martire del ’99 figliolo” - risponde il padre – “e cosa ha fatto per divenirlo?” – chiede ingenuo il pargoletto – “ha tradito il suo re!”.

Achille della Ragione