ENRICO CARUSO
La voce e il cuore di
Napoli
Il 2 Agosto ricorre
l’anniversario della morte del grande tenore Enrico Caruso, Napoli 25.2.1873 –
Napoli 2.8.1921.Sono trascorsi ben 93 anni ma
resta sempre vivo in noi il suo ricordo.Nessuno degli artisti lirici,
stando a quanto si ricorda, può paragonarsi a Enrico Caruso; nessuno ebbe la
dolcezza, la pastosità di timbro e l’estensione di suono della sua voce.
Nacque a Napoli il 25 febbraio
1873, poco lontano dalla nota Piazza Carlo III.
Egli che era il diciottesimo di
21 figli di un modesto operaio; che per due anni aveva lavorato in una fabbrica
di fontane e che aveva cantato chiedendo “la buona grazia del pubblico”,
conosceva bene le ristrettezze della vita e sapeva quanto era bello consolare chi
soffriva per far fiorire un sorriso sul volto del prossimo bisognoso.
Verso i dieci anni cominciò a
cantare nelle chiese, come amava dire egli stesso. Il padre all’oscuro delle
sue qualità canore lo mise tra gli apprendisti meccanici della fonderia De Luca
all’Arenaccia. Anche qui Carusiello (così veniva chiamato affettuosamente) fu
subito notato per la sua mirabile voce, e tutti lo invitavano a cantare. Chi,
però, intuì quale tesoro fosse quella voce e si impegnò a valorizzarla, fu il
baritono Edoardo Misiano. Cantavano insieme sulle spiagge napoletane durante l’estate e un giorno questi, preso da
irresistibile entusiasmo, esclamò “Caruso, la tua voce è unica al mondo!”. Il
giovane, che allora contava diciannove anni, rise incredulo e rispose che
cantava solo perché non sapeva farne a meno.
L’amico non si diede per vinto e
tanto insistette da convincerlo ad andare dal maestro Guglielmo Vergine. Ma
questi udita la voce sottile del giovane, scrollò la testa e mormorò con un
sorrisino di compassione: “Caruso, figlio mio, la tua voce è tutta vento!”.
Neppure dopo questo scoraggiante responso il Misiano si arrese. Se ne stette
tranquillo per qualche tempo e poi ritornò alla carica: “Caruso, te lo ripeto
ancora: la tua voce è miracolosa. Il maestro Vergine dev’essere matto !”. il
giovane si decise perciò, a ritornare dal Vergine. Il quale non soltanto si
ricredette, ma ne divenne il più appassionato sostenitore in quei primi tempi
della carriera.
In attesa di migliore sorte, per
le feste patronali, il giovane tenore seguiva i concertini dei posteggiatori
che andavano a suonare nei rioni popolari di Napoli. Oppure cantava nei caffè
o, come già dicevamo, sulle spiagge. Dopo, passava tra la folla che l’aveva
ascoltato per raccogliere con un piattino le varie offerte.
In breve tutti si accorsero delle
sue capacità, iniziarono così i primi contratti, i primi guadagni.
A Napoli, il vecchio teatro
Mercadante era stato trasformato e rimesso a nuovo da Nicola Daspuro,
rappresentante generale della casa Sonzogno, diretta dal maestro Zuccani. Un
giorno si presentò al Daspuro Guglielmo Vergine e gli raccomandò caldamente
Caruso. Fu pertanto ammesso nella Compagnia e gli dettero da studiare, tra le
altre opere, la Mignon. Ma,
nonostante i paterni incoraggiamenti dello Zuccani, come si andava a provare,
il giovane si emozionava a tal punto da non poter proseguire. La conclusione fu
che la Stagione
terminò senza che avesse potuto cantare una sola volta. (Il nervosismo e la
preoccupazione per il pubblico non l’abbandonarono mai, e, oltre tutto, ne
facevano fede le molte sigarette che fumava nel camerino e i calmanti a cui
ricorreva perfino sulla scena).
Con tenacia commovente, il
Vergine si presentò al Daspuro anche l’anno dopo, pregandolo di andare a
sentire Caruso al Verdi di Salerno. Questi si sforzò di trovare mille scuse per
non andarvi; ma le insistenze furono tali e tante che fu costretto ad
accondiscendere. Non se ne pentì. Caruso cantò come non si sarebbe mai
aspettato ed egli si affrettò a comunicare il proprio entusiasmo al Sonzogno.
Fu autorizzato a scritturarlo per il Lirico di Milano con la paga di 500 lire
al mese. Vi debuttò con l’Arlesiana di Cilea e il successo fu strepitoso. Il
giorno seguente firmava un contratto per 1000 lire a recita.
Da allora ebbe inizio la sua ascesa
straordinaria. Gli arrivarono offerte da ogni parte e fu conteso dai migliori
teatri: 1.000, 2.000, 3.000, 10 mila lire a recita. I proprietari del
Metropolitan di New York, che prima l’avevano scritturato per 12.000 lire,
finirono col presentargli i contratti con la cifra in bianco. Eppure, era
sempre pagato poco in rapporto agli incassi strabilianti. Nono solo il teatro
era sempre zeppo, ma molto pubblico era costretto a tornare a casa, per
mancanza di posti. Andato in Messico nel 1919, per una tournè, una sera dovette
cantare sotto l’ombrello a causa di un improvviso temporale; e tutti i 35.000
spettatori restarono impietriti ad ascoltarlo sotto l’acqua. Giunse ad ottenere
compensi serali di 40.000 lire (di quel tempo!). a tutto ciò bisognava aggiungere,
inoltre, i proventi per niente trascurabili dell’incisione dei dischi.
Poco prima di morire, al
musicologo Alberto De Angelis che voleva conoscere dei dati biografici, il
cantante rispose in questi laconici termini: “24 anni di carriera 20 milioni”. Ma
poi i milioni erano diventati più del doppio. Forse neppure lui sapeva bene
quanto possedeva. Sapeva soltanto che nel 1918 fu quotato per 153.933 dollari
di tasse dal fisco americano, mentre quello italiano cercava di non essere da
meno.
Superate le ambiguità sulla
classificazione della sua voce (se tenorile o baritonale), dovute alle
difficoltà nell’uso del registro acuto e al timbro scuro e vellutato, si
affermò nel 1897 con un’interpretazione della Gioconda al Massimo di Palermo e
fu poi a Livorno (Bohème), a Milano (Arlesiana) e infine a Pietroburgo.
Al colorito caldo e alla
morbidezza della voce, la propensione per il repertorio fece via via aggiungere
una incisività drammatica. Dalla fine del 1903 al 1920 Caruso fi
interrottamente al Metropolitan di New York, facendosi applaudire anche nelle
altre principali città d’America e d’Europa. Nei primi anni americani Caruso
allargò ulteriormente la sua gamma verso l’acuto, conquistando una forza
drammatica, una potenza di voce paragonabile a quella di Tamagno. Ma passò a un
repertorio di opere romantiche (e soprattutto. Aida, Ballo in maschera,
Rigoletto), oltre naturalmente alle più famose arie della canzone classica
napoletana.
NAPOLI NEL CUORE
Andato all’estero e diventato una
celebrità mondiale, Caruso era tornato per cantare nella propria città il
1901. Purtroppo l’accoglienza non fu
pari alle aspettative; principalmente per un gruppo di facinorosi che
disturbarono in teatro la prima sera. L’artista se ne dispiacque tanto che andò
via senza neppure terminare il corso delle recite programmate al S. Carlo.
Giurò anzi di non mettere più piede a Napoli se non per salutare la vecchia
mamma e… per mangiare i vermicelli. Ma, nonostante l’antipatico incidente, egli
rimase sempre teneramente innamorato della città che l’aveva visto nascere e
dove aveva tanto sofferto e sognato. “Se mi apriste il cuore – soleva dire – vi
trovereste un nome solo : Napoli!”.
Caruso omaggiò Napoli e la sua
canzone in giro per il mondo ecco alcuni brani del suo repertorio: Mamma mi che vò sapè; Santa Lucia – Marechiare – tarantella sincera – Manella
mia – Fenesia ca lucive – ‘O sole mio – ‘A vucchella – Senza nisciune – Io
m’arricorde e Napule – Core ‘ngrato. Oltre alla meravigliosa “Tiempe
antiche” da lui stesso composta.
Questo omaggio di cuori innocenti
assume il significato d’un bellissimo simbolo: ricorda che Caruso, oltre a
essere il più grande tenore del mondo, ebbe un cuore particolarmente sensibile
e generoso: il cuore d’un autentico napoletano. Ogni mattina, raccontava la moglie,
gli arrivava un pacco di lettere e quasi tutte chiedevano aiuto. La stessa
signora Doroty diceva di aver trovato dopo la morte del marito una lista di
circa 130 nomi a lei completamente sconosciuti: era tutta gente alla quale
elargiva soccorsi con scrupolosa puntualità. E sorprende ancora di più pensare
che era stato generoso anche quando era un povero squattrinato. La sua popolarità fu enorme, e a
essa contribuì in misura determinante il disco, che in quegli anni incominciava
a entrare nell’uso. Caruso morì in seguito a gravi
complicazioni polomonari era il 2 agosto del 1921, aveva appena 48 anni.
Secondo il suo desiderio il suo corpo riposa nella sua amata Napoli presso il
Cimitero di Poggioreale.
Mario Mirenghi