VICIENZ 'A MARE ANTICO RISTORANTE
ORA ECOMOSTRO
com'è |
com'era |
Dopo 35 anni di battaglie legali il
Consiglio di Stato rinvia l'abbattimento di "Vicienz a Mare" a
Pozzuoli. Verdi: "da decenni il lungomare è deturpato da questo ecomostro
e ancora la giustizia amministrativa non decide". "Il Consiglio di
Stato ha rinviato l'abbattimento dello scheletro "Vicienz a Mare"
situato sul lungomare di Pozzuoli come racconta cronacaflegrea. Una vicenda
incredibile - denunciano il consigliere regionale dei Verdi Francesco Emilio
Borrelli e il consigliere metropolitano e comunale di Pozzuoli del Sole che
Ride Paolo Tozzi -
che si trascina da oramai 35 anni dopo
che i proprietari dopo un ristrutturazione dell'immobile furono accusati di
aver realizzato un enorme abuso edilizio che deturpava il paesaggio del comune
flegreo. Tra ricorsi, contenziosi e battaglie legali l'unica cosa certa è che
da decenni questo ammasso di cemento rovina il lungomare e il paesaggio di
Pozzuoli. Il comune aveva ordinato l'abbattimento ma con questo nuovo colpo di
scena è tutto di nuovo rinviato con grave danno per la cittadinanza, i turisti
e il paesaggio. Possibile mai che la giustizia amministrativa non sia in grado
di mettere la parola fine a questa vicenda assurda e indecente?"
Breve storia della struttura tratta dal
sito l'occhio del gabbiano. Dietro ad un nome c’è una storia ricca di quasi tre
secoli. Tutto inizia nel lontano maggio 1676 dopo che i frati cappuccini ebbero
dall’amministrazione comunale il permesso di costruire a 50 passi dal mare, in
località “bucciaria”, uno ospizio-convento stagionale. Questi divenne un
rifugio per i frati che dovevano allontanarsi dal convento, situato in
prossimità del lago d’ Agnano, a causa delle continue esalazioni della
macerazione delle canne di lino che provocarono la morte di alcuni di essi.
Dopo varie vicende che videro il contrasto tra i Domenicani e i Cappuccini,
iniziarono i lavori dell’ospizio. A quei tempi lo stabile si presentava con una
forma rettangolare a due piani, posta a strapiombo sul mare. Al suo interno vi
erano 15 celle, un’ ampia chiesa e le stanze adibite ai servizi. L’ospizio ebbe
una vita caratterizzata dalle molteplici ristrutturazioni causate da due
fattori principali: l’erosioni del mare e il bradisismo. Quest’ultimo portò al
completo allagamento del pian terreno e la conseguente chiusura nel 1850. Solo
dopo il 7 luglio del 1866 ,con la legge per l’incameramento dei beni
ecclesiastici, la costruzione passò nelle mani del demanio marittimo nel 1871,
e successivamente, nel 1875 fu venduto dal ministero della marina ad un privato
che lo adibì a locale per pescicoltura e bagni.
Nel 1880 il vecchio ospizio divenne una
trattoria grazie al gastronomo napoletano Gennaro
Polisano , che inventò un piatto
denominato “Cannoni all’Amstrong” in onore dello stabilimento Amstrong che poi
successivamente prese il nome di “Sofer”. Inoltre il maestro Polisano era anche
conosciuto per il suo “ragù Polisano ” che come ingrediente segreto aveva il
cioccolato e il famosissimo vino di Marsala o Pantelleria. Lo stabile rimase di
sua proprietà fino al 1927, quando Vincenzo Maiorano lo rilevò, trasformandolo in
un magnifico ristorante denominato “Vicienz ‘a mmare”, teatro di cerimonie e di
pranzi favolosi creati da chef rinomati. Il sogno di Vincenzo però durò fino al
1972 quando, a causa di gravi lesioni alla strutture, dovette chiudere. Dopo
dieci anni ci furono i lavori di ristrutturazione per il rifacimento
dell’intera struttura che dopo qualche mese fu dichiarata abusiva dal demanio
marittimo, rendendola quella che è tutt’oggi: un enorme ammasso di cemento
inanime che ricorda un palazzo libico colpito da un bombardamento.
Un gioiello d’arte sconosciuto:
Palazzo Tirone
Nifo
Tra le tante gemme nascoste nel tessuto urbano di Napoli un posto di
rilievo lo occupa Palazzo Tirone Nifo, oggi trasformato in scuola, nel cui
interno si può ammirare un grandioso dipinto di Francesco Solimena
Brandi |
dipinto di Solimena |
Palazzo Tirone Nifo
Il "poggio delle Mortelle" chiamato così già dal sec. XVII, probabilmente
per i numerosi alberi di mirto (in napoletano monelle), oppure per le proprietà
della famiglia De Troyanis Y Mortela, agli inizi del 1600 doveva essere una zona
così amena, silenziosa e ricca di alberi e giardini, che numerosi ordini
religiosi, dopo il Concilio di Trento, decisero di istituirvi dei
conventi. Tra i primi religiosi vi furono i Carmelitani della Concordia, poi alla
fine del '500 i Conventuali che fondarono S. Maria Apparente, gli Agostiniani
nel 1618 S. Nicola da Tolentino, i Barnabiti nel 1616 S. Carlo alle Mortelle.
Sorsero anche edifici destinati a religiose, come il Suor Orsola Benincasa nel
1633 ed il ritiro di Mondragone nel 1653.
Non minore attenzione al fascino della zona prestarono alcune famiglie aristocratiche come i Calà
Ulloa e i Brancaccio ed illustri giureconsulti che vollero in quel luogo la loro
residenza.
Nell'ultimo decennio del '600 la zona compresa tra S. Maria Apparente e
S. Carlo alle Mortelle, dove ancora la collina si presentava ricca di alberi e
giardini e dalla quale si godeva un' incantevole vista a mare, un ricco
commerciante napoletano, Giuseppe Tirone, comprò un'abitazione e, per non farla
essere da meno alle altre, la volle più grande e decorata dai migliori artisti
dell'epoca. Non si sa chi progettò l'edificio, ma certamente quello al vico S. Maria
Apparente, dove attualmente ha sede la scuola media statale Vittorio Emanuele
II, ha subìto numerosi rimaneggiamenti per assecondare i vari usi ai quali è
stato adibito. L'ultimo restauro, quello dopo il terremoto del 1980, è stato
forse il più dannoso per l'edificio, sia per le ulteriori trasformazioni che ne
hanno sempre di più snaturato la conformazione, sia per l'introduzione e la
sovrapposizione di scale di sicurezza in ferro e di profilati
metallici. La facciata su vico S. Maria Apparente, forse presenta ancora oggi
l'aspetto originale: due portali d'ingresso e tre ordini di aperture simmetriche
incorniciate dal piperno, per l'interno, invece, non è possibile risalire alla
struttura originale, in quanto l'edificio aveva anche l'ingresso da via Filippo
Rega con dei corpi di fabbrica quindi, a livelli diversi che digradavano sulla
collina probabilmente intervallati da giardini terrazzati, da cortili e spazi
interni. Il palazzo doveva essere dotato di stalle, ingresso per le carrozze e
stanze per il personale. Sicuramente il secondo piano doveva essere quello di rappresentanza per
la presenza delle due sale affrescate dal Solimena e dal De Matteis, e l'impegno
economico del committente dovette essere notevole, perché anche altri ambienti
dovevano essere stati decorati, lo dimostra la presenza di tre logge sulla
stessa verticale, ma su piani diversi, due delle quali sono ancora intatte e
presentato un pregevole soffitto decorato da Gaetano Brandi(fig.02 - 03) in cui
vi è un magnifico effetto trompe l'oeil. Non si riesce a datare l'affresco del Solimena, De Dominici non ne fa
cenno, ne parla il Ceva Grimaldi (1857), il Pavone,
che ne ha fatto uno studio approfondito, ritiene che il pittore lo abbia dipinto
nell'ultimo decennio del sec. XVII, opinione sulla quale
concordiamo. Il dipinto è celebrativo e, probabilmente, vuole essere un omaggio alla
famiglia De' Medici, come si evince dal grande stemma che chiude il decoro
dell'affresco. Nel 1737 l'edificio viene trasferito da Carlo III di Borbone agli
Scolopi perché fondassero un collegio per i giovinetti nobili della città che si
chiamò "Collegio di sopra S. Carlo alle Mortelle". I padri Scolopi di Puglia
furono ben felici dell'incarico anche perché dovevano lasciare la loro sede di
Posillipo ed erano in cerca di un edificio per educare i
giovani. E' il momento in cui la struttura subirà le prime trasformazioni per
essere adattata all'ospitalità dei giovani che venivano separati in camerate in
base all'età ed erano sorvegliati giorno e notte da un religioso ed un cameriere
e vigilati dal Padre Ministro.
Gli allievi erano accolti dai 6 ai 10 anni, fino ai 16, 19 anni, gli
insegnamenti impartiti comprendevano sia materie umanistiche che scientifiche,
particolare rilievo veniva dato ad attività di laboratorio (ricchissimo il
gabinetto di fisica). Si dava spazio, inoltre, allo studio dell'eloquenza, della
calligrafia, della scherma e della danza.
In pochi anni il collegio divenne famoso e importante soprattutto sotto
la direzione del Padre Carcani e del Padre De Nobili (ricordato nell'iscrizione
marmorea posta nell'ex Cappella al secondo piano), diventando di esempio per il
suo regolamento agli altri collegi che si andavano
fondando. Era divenuto un tale modello educativo, che nel 1809, quando il Murat
requisirà tutti i beni ecclesiastici, risparmierà il collegio considerandone
l'alto valore educativo. All'epoca numerose erano le richieste di iscrizione e per controllare e
seguire un numero sempre maggiore di allievi, raddoppiò il numero di Padri
Scolopi che nel 1850 divennero circa 40. Fu il periodo più fulgido del collegio, i Padri rinnovarono la Cappella
al secondo piano facendola decorare di stucchi e quadri sulla vita e le opere di
Giuseppe Calasanzio, loro fondatore, e ponendovi due lapidi in onore di Maria
Assunta in Cielo ritratta nell'affresco centrale e di Padre O. F. De Nobili
rettore del collegio che contribuì alla beatificazione del
Calasanzio. Gli ultimi anni di attività del collegio, che si chiuse per esproprio nel
1867, furono problematici per le discordie che nacquero tra i padri, infatti
quando il Governo centrale lo chiude, questi si
divideranno. Non è possibile datare le trasformazioni che subì l'edificio durante e
dopo la gestione dei Padri Scolopi, certamente intorno al giardino centrale (ora
un brutto cortile) doveva esservi un chiostro e poi sulla sinistra un'altra
Cappella più ampia dove attualmente sono le due palestre della
scuola. Qualche segno del passato si intravede in alcune aule dove c'è uno
stucco, una nicchia, ecc. Del collegio sono rimasti i libri di iscrizione degli
allievi e numerose macchine del laboratorio di fisica, inoltre varie
suppellettili. Dopo gli Scolopi l'edificio ospiterà altre scuole, dal Liceo Ginnasio
Principe Umberto, all'Istituto femminile Vittorio Emanuele II per il ricamo ed
il cucito, di cui sono rimaste una serie di antiche macchine da cucire e delle
piante dell'edificio così come veniva utilizzato per i vari
laboratori.Dopo avere ospitato anche un Magistero parificato, l'edificio dal 1962 è
sede della Scuola Media Statale Vittorio Emanuele
Il.
Achille Della Ragione
Il trionfo dell’erotismo
nella scultura napoletana tra '800 e '900
figura 1 |
figura 2 |
figura 3 |
“Godere
della bellezza di un seno, anche se raffigurato dal pennello di un pittore o
dallo scalpello di uno scultore è l’esercizio più nobile che distingue l’uomo
dalla bestia, la civiltà dalla barbarie, è la sintesi di una condizione umana
immutabile, sospesa tra l’esaltazione dell’amore ed il terrore della solitudine,
tra la gioia di vivere e la paura di morire e ci aiuta ad affrontare più
serenamente l’angoscia dell’esistenza, a coglierne la bellezza e la
fragilità.
Che
cos’è veramente l’arte se non una guerra, una lotta contro la materia, un corpo
a corpo con la forma e con l’idea. Perdersi nell’armonia delle forme e dei
colori permette di addentrarsi in un mondo senza frontiere e ci dà la
possibilità di essere felici nell’eternità della bellezza e dell’arte.
Quale
viaggio più avventuroso della serena contemplazione dei severi seni della Victa,
un busto marmoreo, capolavoro dello scultore Francesco Jerace, già nella
collezione del comandante Achille Lauro.
La
statua proviene da un blocco di marmo di Carrara bianchissimo e luccicante ed
irradia una luce abbagliante, che sembra stregare ed avvincere l’osservatore, il
quale, rapito dalla bellezza del volto corrucciato e dalla vista degli splendidi
seni non può guardarla troppo a lungo senza desiderarla. I seni della Victa sono
fatti di un marmo carnoso, ricco, trasparente; essi sono eterni, sostenuti dalla
rigidità della materia impassibile. Non si deformano, né avvizziscono, archetipo
immobile della femminile bellezza. Rappresentano il porto sicuro verso cui ogni
uomo anela di fermarsi e riposare per sempre, preziosi come una boccetta di rare
essenze, prorompenti, ma nello stesso tempo fragili, come se costituiti da
sottile cristallo, che a rompersi si disperdono come polvere di
talco.
Alla
vista di questi seni immortali è inevitabile per l’osservatore cadere vittima
della sindrome di Sthendal: una vertigine intensa ed interminabile che
illuminerà questo nostro lungo percorso attraverso l’arte ed attraverso il seno,
un pianeta che merita di essere esplorato e sviscerato in lungo e largo per un
sottile piacere dello spirito”. Prima di passare oltre vi confesso che ho
utilizzato più volte queste frasi laudative per elogiare seni di signore e
signorine, illuse che fossero stati composti alla vista dei loro e la ricompensa
è stata sempre palpabile e commisurata ai complimenti.
fig.8 |
figura 4 figura 5 |
fig.11 |
figura 6 figura 7 |
figura 12 fig.13 fig. 14 14 |
fig.9 |
figura 10 |
Achille della
Ragione
Antiche
tradizioni in un mare Festa S..Restituta |
di storia e di bellezza
nell'Isola d'Ischia
festa S.Vito |
Festa S.Anna |
La
bellezza del golfo di Napoli è accresciuta dalle stupende isole che gli fanno da
corona: Capri, Ischia e Procida, in rigoroso ordine alfabetico. Una romana,
l’altra greca, le prime due gareggiano per bellezza, monumenti e cucina. Due
gemelle diverse, amate in egual misura da vip e turisti mordi e fuggi, con le
loro attrazioni celebri in tutto il mondo, in grado di calamitare fiumane di
visitatori, dalla Grotta Azzurra a Villa Jovis, dalle terme Poseidon ai giardini
della Mortella, senza dimenticare l’incanto di Procida con l’Oasi di Vivara,
dove il tempo sembra essersi fermato.
Napoli,
senza le sue isole che la contornano e lo stretto legame che ogni giorno si
rinnova, non sarebbe la stessa, privata di quella preziosa corona di gemme che
la circonda; distinte per la loro diversa conformazione in “virgiliane” quelle
flegree, tufacee ed “omeriche” quelle della costiera sorrentina, “dolomitica”
Capri.
Gli
abitanti delle isole presentano caratteristiche comuni, influenzate dal mare che
li delimita, il quale determina anche un particolare sviluppo dell’economia,
della vita sociale, delle tradizioni civili e religiose.
Nel
microcosmo isolano assume un ruolo trainante la formazione scolastica di matrice
marinaresca con prevalenza di istituti nautici e professionali marittimi, i
culti religiosi indirizzati alla venerazione di santi in qualunque modo legati
alle acque, come San Francesco di Paola o Santa Restituta, le tradizioni
popolari, con processioni caratterizzate da parziali percorsi tra le onde, come
per la festa di San Vito, mentre le chiese sono piene di ex voto e quadretti
d’argomento marinaro, ma, soprattutto, le attività commerciali ed artigianali,
prima di essere soppiantate dalle attività turistiche, ruotano quasi tutte
intorno al mare, dall’armamento navale alla pesca.
Ogni
isolano subisce un’attrazione fatale con il proprio scoglio e, se deve recarsi
sulla terraferma per acquisti od altre incombenze, non vede l’ora di tornare a
casa ed è attaccato alla sua isola più che un cittadino alla sua città o un
paesano alla sua cittadina.
Ischia,
prima dei Romani, era colonia greca e più tardi è stata interessata dai flussi
turistici, specialmente tedeschi. Tra i turisti affezionati un posto di rilievo
è occupato dalla cancelliera Angela Merkel, da decenni habituè dell’isola, da
quando, in quel di Sant’Angelo, prendeva il sole “nature”: oggi, dopo aver
pagato regolarmente il biglietto dell’aliscafo, va a cenare a casa dell’amico
Jacono, il maitre licenziato dall’albergo in cui trascorre da anni le sue
vacanze, ancora in grado di preparare per lei ed il marito gustosi
manicaretti.
Rimanendo
in ambito gastronomico, si può andare ad Ischia o a Capri anche soltanto per
gustare le prelibatezze della tradizione culinaria partenopea, dalla spigola al
calamaro, dai timballi di maccheroni al ragù fino alle deliziose pastiere,
mentre Ischia è famosa per il coniglio, cotto lentamente nel coccio secondo
svariati modi al punto che ogni casa crede di essere l’unica titolare della vera
ed unica ricetta, tramandata da generazioni.
Anche
Ischia, isola verde per eccellenza, ha i suoi trionfi di bouganville e
gelsomini. Che dire dei giardini Poseidon dove le vasche si susseguono a picco
sul mare e si passa dal tiepido amniotico al caldo vulcanico ed al fresco dolce,
mollemente adagiati nell’acqua termale su cui galleggiano petali di rose? E se
proprio volete un tocco di chic, abbiamo ancora il giardino della Mortella, il
giardino del raffinato sir William Walton, musicista e gaudente, davvero
splendido. In alto sul mare di Forio, è un delicato e metamorfico delirio di
piante tropicali che nella terra calda prosperano felici, mescolando orchidee
rarissime a palme arcane: pochi passi in mezzo a questi tropici mediterranei e
ci si trova in un altro mondo, in un’epoca in cui la bellezza si trasformava in
musica della realtà.
Ischia
durante l’estate raggiunge i 500.000 abitanti e lungo le sue coste si muovono
migliaia di natanti, dal gozzo dell’impiegato o del piccolo commerciante alle
lussuose imbarcazioni da nababbo, lunghe decine di metri e cariche di donne
tenebrose ed affascinanti. E, nonostante la grande confusione e l’inevitabile
aumento dell’inquinamento, ci sarebbe da rallegrarsi, segno che l’economia,
principalmente quella sommersa, non va così male come vogliono convincerci i
nostri amati governanti ideatori della prossima severa
finanziaria.
Le
feste religiose sulle isole offrono spesso uno spettacolo toccante: la
processione per le acque della statua del santo che si celebra. Questo accade
anche a Lacco Ameno in occasione di una delle feste più grandiose dell’isola: la
festa di Santa Restituta.
Oltre
che per il significato religioso, la Festa di Santa Restituta, a Lacco Ameno, è
importante perché sancisce l’inizio della bella stagione sull’isola d’Ischia.
Non l’inizio della stagione turistica, che per convenzione coincide con
l’avvento della Pasqua, ma proprio l’inizio dell’estate. Insomma, mare, sole,
spiagge e tutto l’immaginario tradizionalmente associato a una località
balneare. Del resto, maggio è il mese ideale per visitare Ischia. Le giornate si
allungano, le temperature aumentano gradualmente e ancora non c’è la calca di
luglio e agosto.
Ma
torniamo alla festa di Santa Restituta. Uno dei momenti più importanti delle
celebrazioni – il clou dei festeggiamenti è il 16, 17 e 18 maggio – è la
rappresentazione dello sbarco della martire tunisina sulla spiaggia di San
Montano. Leggenda vuole che il corpo esanime della santa sia approdato sulle
coste di Lacco Ameno dopo esser miracolosamente scampata al fuoco che i romani
le avevano “riservato” per punizione. Santa Restituta, infatti, è una dei 49
martiri di Abitina, i cristiani processati e giustiziati nel 304 in Tunisia per
non aver rinunciato alla loro fede; e assai venerati, per questo, dalla Chiesa
cattolica.
Sempre
secondo la leggenda, subito dopo lo sbarco, sulla spiaggia di San Montano
fiorirono migliaia di gigli bianchi, da quel momento associati alla venerazione
della santa divenuta in seguito patrona di Lacco Ameno. Figura centrale del
racconto è anche una donna del posto – Lucina, il nome – che, avvertita in sogno
della presenza, sulla spiaggia, della martire africana, si assicurò di darne
degna sepoltura ai piedi della collina di Monte Vico, proprio dove oggi sorge la
Chiesa di Santa Restituta.
Leggenda
o no, è un fatto che sotto la cripta della basilica, negli anni ’50 del secolo
scorso furono rinvenuti diversi reperti attestanti la presenza in loco di un
antico cimitero paleocristiano, a conferma della profondità della fede
sull’isola d’Ischia.
Merita
una visita anche la chiesa, secondo alcuni la più bella dell’isola. Si trova al
termine del corso Angelo Rizzoli, di fianco all’attuale municipio costruito dai
frati Carmelitani. Pianta rettangolare, navata unica e soffitto cassettonato, la
chiesa è piena di ex voto dedicati alla Santa, cui del resto era assai devoto
anche il poeta francese Alphonse De Lamartine, uno degli ospiti illustri di
Casamicciola, che nell’agosto del 1844 le dedicò addirittura una poesia, dal
titolo emblematico, “Il Giglio di Santa Restituta”.
L’appuntamento,
perciò, è per la sera del 16 maggio, quando sulla spiaggia di San Montano viene
rievocata l’epopea di Santa Restituta. Da non perdere anche la processione via
mare e i spettacolari fuochi pirotecnici dell’ultimo giorno, a chiusura della
manifestazione.
San
Vito è il santo patrono del comune di Forio d'Ischia e sono dedicati alle feste
ed alle celebrazioni religiose ben 4 giorni.
Per
l'occasione tutto il paese e' in festa perché questa ricorrenza è molto sentita
dagli abitanti del comune e non solo. Sono tantissimi i turisti che si riversano
nelle strade in questi giorni. La festa è caratterizzata da due momenti che ne
formano un unico cuore. Il tradizionale omaggio culturale dei fedeli al santo
patrono in tutta una serie di momenti religiosi e la tradizionale fiera nel
centro e lungo la marina, arricchita da tutta una serie di concerti e momenti
bandistici. I festeggiamenti si hanno dal 10 al 17 di Giugno.
Il
14 di giugno si celebrano le messe, in serata, nel piazzale di San Vito vi si ha
la rappresentazione storica tradizionale della vita del patrono e del suo legame
col comune. Il 15 di giugno, giorno di San Vito, si celebrano messe in
continuazione, ed in mattinata una banda musicale gira per le strade cittadine.
Nel pomeriggio la statua è portata in processione per le strade di Forio e sul
porto verso le ore 18.00 un primo spettacolo di fuochi pirotecnici. Il 16 nel
pomeriggio, il Santo e' portato in processione via mare con la commemorazione
dei caduti con la partecipazione dell'A.N.M.I. e dell'associazione
pescatori San Vito di Forio.
Al
rientro benedizione eucaristica e successivamente in piazza Municipio un nuovo
concerto. La conclusione dei festeggiamenti è caratterizzata da una famosa ed
attesa esibizione di spettacolari fuochi pirotecnici, che ha inizio alle ore
00.30 circa.
La
festa di San Vito, che cade alla metà del mese di giugno, è molto sentita dagli
abitanti di Forio d’Ischia, che ogni anno portano in processione per le strade
del Comune la bella statua.
La
scultura di San Vito è in rame e argento e venne disegnata dallo scultore
Giuseppe Sanmartino (autore anche del Cristo Velato presente a Napoli nella
cappella San Severo) e colata da due orafi napoletani nel 1787 (ma il culto del
Santo è molto più antico). L’opera di rivestimento di oro della statua fu
finanziata addirittura attraverso una tassa su tutte le caraffe di vino vendute
nelle osterie.
Vito
era un giovane cristiano forse di origine siciliana, che durante le persecuzioni
dell’imperatore Diocleziano fu martirizzato per non aver voluto rinnegare la
propria fede. La statua di San Vito lo raffigura, quindi, come un ragazzo che
porta la palma del martirio; accanto a lui sono seduti un cane ed un leone,
tradizionalmente associati a questo Santo, mentre il grappolo d’uva fra le mani,
lo collega specificamente all’isola.
Il
cane è il simbolo che indica la protezione del Santo contro malattie
neurologiche, come per esempio quella che popolarmente viene chiamata “Ballo di
San Vito”. Si racconta che San Vito guarì dalla malattia (l’epilessia) il figlio
dell’imperatore Diocleziano.
Il
leone sta a ricordare presumibilmente uno dei martiri che San Vito subì: fu dato
in pasto ai leoni, ma essi lo risparmiarono rimanendo
mansueti.
Veniamo
al grappolo d’uva: nell’Ottocento i vigneti ischitani furono colpiti da
gravissimi attacchi di crittogama, un fungo che distruggeva le piante.
L’economia di tutta l’isola, e di Forio in particolar modo (poiché in questa
zona la superficie coltivata a vite era assai estesa), fu messa in grave crisi.
Naturale
che i contadini e le loro famiglie chiedessero aiuto al Santo patrono: la
leggenda dice che una barca carica di zolfo, il rimedio che salvò i vigneti
ischitani, fu fermata al largo di Forio proprio da S. Vito, che pagò la
salvifica sostanza con un anello che apparteneva alla sua statua. In realtà, lo
zolfo arrivò sì via mare, ma portato dai tre fratelli Sanfilippo, provenienti
dalle Eolie (dove si trova zolfo in grande quantità) e furono essi a farlo
conoscere ai disperati vignaioli ischitani.
Tuttavia,
il suggestivo racconto dell’aiuto recato da San Vito ai suoi fedeli è più che
mai vivo nelle famiglie foriane, al punto che durante la festa si usa adornarne
la statua con grappoli d’uva appena raccolti, ancora acerbi essendo il mese di
giugno, ma irrorati di zolfo, come tuttora si usa nelle vigne
isolane.
La
Festa a mare agli scogli di Sant’Anna è la più importante sagra estiva
dell’isola d’Ischia. Si svolge la sera del 26 luglio a partire dalle 21 ad
Ischia Ponte, che un tempo si chiamava il Borgo di Celsa, nello scenario della
baia di Cartaromana con una sfilata di barche allegoriche, l’incendio simulato
del Castello Aragonese ed ancora con uno straordinario spettacolo di fuochi
d’artificio che si possono vedere anche dalla vicina isola di Procida e da
quella più lontana di Capri.
Vi
assistono migliaia di turisti e di isolani seduti sugli scogli del pontile
aragonese o nelle barche che a centinaia si posteggiano in questo meraviglioso
specchio d’acqua dove la natura si confonde con la storia e non sai chi prevale.
La
festa nacque nel 1932 per iniziativa di un gruppetto di amici. Racconta nelle
sue memorie, Michelangelo Patalano, uno dei promotori che “avevamo notato negli
anni precedenti che la sera del 26 luglio parecchie barche di pescatori con a
bordo le famiglie si recavano a recitare il Rosario davanti alla chiesetta di S.
Anna dopo di che si consumava a mare una cena a base di coniglio e di melanzane
alla parmigiana e pensammo di formare un comitato per una sfilata di barche
addobbate e lampade sulle colline di Campagnano e di Soronzano”. Patalano ed i
suoi amici non immaginavano che stavano portando alla luce antiche tradizioni e
consuetudini, memorie legate ai luoghi e alla loro storia. Nel corso degli anni
sono cambiati i temi delle barche addobbate – dalla canzoni napoletane alle
antiche tradizioni isolane – ma è rimasto sempre lo stesso spirito.
“La
baia di Cartaromana è uno specchio d’acqua, dove nel tempo gli Ischitani hanno
trasposto in segni di espressività rituale il ciclo intero della loro vita: la
nascita, con la processione delle partorienti alla chiesetta di Sant’Anna, la
condivisione del pasto a mare nelle sere d’estate, che è la consuetudine da cui
ha avuto origine l’idea di addobbare le imbarcazioni, sviluppatasi poi negli
anni fino a definirsi nella sfilata delle barche allegoriche, e ancora l’addio
alla vita, con la consuetudine del funerale per mare, che aveva nel cimitero
colerico di Sant’Anna il suo approdo e che ispirò ad Arnold Böcklin il suo
dipinto più famoso, L’isola dei morti”.
La
Festa si svolge nel “cielo” di una città sommersa, l’antico porto romano di
Aenaria, già noto dalle fonti letterarie e storiche, e i cui resti archeologici
sono stati scoperti grazie alle recenti campagne di scavo.
Come
ogni Festa, l’evento, nel suo svolgimento, recupera ed esalta la trama di
relazioni spaziali e simboliche dei luoghi: il legame tra la Torre di Sant’Anna,
meglio nota come Torre di Michelangelo, e il Castello Aragonese come
contrapposizione della Villa rinascimentale al contesto fortemente urbanizzato
dell’insediamento sull’Insula minor, il rapporto tra la collina di Soronzano e
il Castello Aragonese come tra rilievi che si fronteggiano, l’alterità
fortemente simbolica della Chiesetta di Sant’Anna e del cimitero rispetto al
Borgo di Celsa, la natura liminare degli scogli di Cartaromana” continua Ronga.
Da
tempo si vuole porre particolare attenzione al rapporto tra la città sommersa di
Aenaria e la baia con le sue pregevolezze storico-artistiche, sia attraverso la
realizzazione di itinerari culturali che nei giorni precedenti alla celebrazione
della Festa consentano di visitare i luoghi (visite guidate, sistema di pannelli
informativi, incontri culturali e spettacoli), sia disegnando nella struttura
narrativa stessa dell’evento un percorso che promuova la diffusione e la
conoscenza del sito archeologico.
La
Festa si caratterizza per la sfilata delle barche allegoriche. Sono macchine
sceniche galleggianti che s’ispirano a temi legati all’isola. Artisti,
scrittori, musicisti e studiosi, che hanno frequentato l’isola e l’hanno
raccontata nelle loro opere sono gli autori dei temi delle barche. Grazie ai
loro scritti, appositamente elaborati per le barche allegoriche, queste
personalità del mondo della cultura e dell’arte diventano testimoni, ultimi
viaggiatori sulle orme del Grand Tour. Sono stati scelti quattro autori che
hanno scritto di Ischia Vinicio Capossela, Erri De Luca, Elio Marchegiani e
Andrej Longo ai quali dovranno ispirarsi i costruttori delle 4 barche in gara
mentre ci saranno altre tre barche fuori concorso.
“Le barche allegoriche sono realizzate da gruppi di artigiani, carpentieri e artisti, che rappresentano identità locali fortemente caratterizzate, “isole” riconoscibili per storia, tradizioni ed economia, lungo un percorso dal mare alla montagna carico di suggestioni storiche e letterarie, sulle tracce dei fuochi accesi anticamente in onore di Sant’Anna, dalla cima dell’Epomeo fino alla baia di Cartaromana”.
“Le barche allegoriche sono realizzate da gruppi di artigiani, carpentieri e artisti, che rappresentano identità locali fortemente caratterizzate, “isole” riconoscibili per storia, tradizioni ed economia, lungo un percorso dal mare alla montagna carico di suggestioni storiche e letterarie, sulle tracce dei fuochi accesi anticamente in onore di Sant’Anna, dalla cima dell’Epomeo fino alla baia di Cartaromana”.
La
sfilata delle barche allegoriche è una competizione. Una giuria, composta da
esperti nel campo artistico, scenografico e architettonico, giudica e premia le
barche stilando una classifica, in base alla quale i gruppi partecipanti
ricevono un rimborso spese per la realizzazione della macchina scenica.
Ad
aprire questo anno la serata del 26 luglio
ci sarà una sfilata di alcune barche allegoriche fuori concorso. Saranno
installazioni galleggianti che illustreranno aspetti della storia della Festa,
richiamando quelle tradizioni che nel corso degli anni hanno dato origine alla
sfilata delle barche allegoriche. Le strutture, inoltre, rievocheranno anche
l’evoluzione storica della barca allegorica: dal gozzo alla
zattera.
Le
installazioni artistiche saranno collocate nei giorni precedenti alla sfilata (a
partire da mercoledì 23 luglio) a Piazzale Aragonese e a Piazzale delle Alghe,
disegnando, con l’ausilio di pannelli e didascalie, un percorso che illustrerà
anche l’evoluzione della barca allegorica nella sua struttura portante, dal
gozzo alla zattera. Saranno poi calate in mare nel pomeriggio del 26 luglio,
realizzando un rituale di grande suggestione.
L’evento
si conclude sempre con lo spettacolo di fuochi che coinvolge tutta la baia. Le
numerose “lampetelle” poste sugli scogli di Sant’Anna, sui bastioni del Castello
aragonese, sui merli della Torre di Sant’Anna, sui balconi del Borgo, disegnano
una cornice scenografica di grande suggestione. Lo spettacolo dei fuochi e
l’incendio simulato del Castello aragonese recuperano la memoria del
cannoneggiamento dell’antica città sullo scoglio da parte degli Inglesi sulla
collina di Soronzano agli inizi dell’Ottocento. E’ questo un momento
spettacolare, tradizionalmente atteso dal pubblico che si assiepa sugli scogli e
sulle imbarcazioni intorno allo specchio d’acqua della baia, che trasforma
l’isolotto del Castello in una macchina scenica galleggiante, la più grande e
poetica delle barche allegoriche.
Achille
della Ragione
Il ritmo frenetico della ‘ndrezzata,
una tarantella
armata
La
stessa parola tarantella richiama alla mente Napoli, anche se, secondo
autorevoli studiosi, deriva da una tarantella ballata nelle Puglie che, secondo
la credenza popolare, serviva a liberare dal veleno iniettato dal morso della
tarantola.
Ben
presto la tarantella napoletana acquistò una sua precisa autonomia, divenendo
una danza caratterizzata da precisi movimenti segnati da ritmica gioiosità e da
una evidente allusività erotica, che ne ha fatto per due secoli uno dei balli
più popolari del mondo.
Bisogna
precisare che il tarantismo rinvia ai culti orgiastici dell’antichità greca nei
quali la musica ha una funzione catartica in linea con le pratiche culturali del
dionisismo; poi, con il predominio del cristianesimo, si determinò una crisi
degli orizzonti mitico rituali del mondo antico, a tal punto che vi fu una
polemica tra San Paolo e la Chiesa di Corinto, che praticava una liturgia che
tendeva eccessivamente al raggiungimento dell’estasi.
Le
pulsioni represse durante il medio evo trovarono nella danza sfrenata seguaci in
tutta Europa, come i danzatori di San Giovanni e di San Vito ricordati da
Nietzche nei suoi scritti.
Il
tarantismo è da interpretarsi come l’esorcismo coreutico musicale dell’eros
represso, quell’eros che poteva manifestarsi liberamente nell’orgiasmo pagano e
che in epoche successive era costretto ad utilizzare travestimenti simbolici e
differenti modalità di estrinsecarsi. A Napoli nel 1721 l’illustre medico
Cirillo identificò nell’Ospedale degli Incurabili un caso di tarantismo che
riuscì a guarire attraverso l’intervento di suonatori da lui
convocati. E
passiamo ora alla nostra tarantella, non più danza di possessione bensì danza di
costume. Sotto il profilo musicale dobbiamo rilevare una sostanziale differenza
tra il tarantismo pugliese, che ha un tempo pari, e la tarantella, nella quale
il tempo dispari crea un ritmo più svelto e brioso. Accenniamo
infine all’ipotesi sostenuta dallo studioso Renato Penna che fa derivare la
tarantella dalla fusione del ballo di Sfessania, di origine moresca, con
ilfandango di origine spagnola. Per
quel che riguarda gli strumenti d’accompagnamento vi è il predominio di quelli a
corda ed a percussione (calascione e tamburello) su quelli a fiato con
l’introduzione di nuovi strumenti autoctoni come il putipù, lo scetavajasse, ‘o
siscariello e il triccaballacco.
Inoltre,
nella tarantella la gestualità viene scandita in tre fasi: in piedi, caduta al
suolo e movimenti a terra, oltre ad altri passi e figure d’incerta
origine.
Ne
esistono due forme: una semplice, ballata da sole donne, ed una complicata, in
cui si esibiscono anche gli uomini. La
tarantella, come raffigurano numerosi dipinti, veniva ballata dal popolo in
occasioni importanti come la festa della Madonna dell’Arco, quando i
partecipanti si scatenavano in maniera talmente eccitata da far esclamare al
Mantegazza che essa gli ricordava, per lo sfrenato erotismo, le orge di alcune
popolazioni selvagge. All’epoca
del Gran Tour essa viene illustrata più volte dagli artisti che accompagnavano i
ricchi visitatori, come il nobile Bergeret de Grancourche portò con sé in Italia
il sommo pittore Fragonard. La
tarantella ritorna anche in numerosi immagini del Voyage pittoresque dell’Abbè
De Saint-Non, pubblicato a Parigi nel 1781. Seguì poi, ad uso dei forestieri
meno danarosi, una vera e propria produzione in serie di immagini da riportare
in patria come souvenir.
Di
nuovo abbiamo però rappresentazioni della tarantella eseguite da artisti famosi
come Angelica Kauffman, Filippo Palizzi ed Edoardo Dalbono, che ci forniscono
una serie importante d’informazioni sulla classe sociale ed il sesso dei
ballerini, sull’ambiente dove si svolge, sugli strumenti musicali
d’accompagnamento, sulle gestualità più comuni. Abbiamo anche testimonianza di
una tarantella tra femminielli.
Anche
la letteratura ci fornisce descrizioni accurate della tarantella, soprattutto da
parte di autori stranieri, che costantemente sottolineano le valenze erotico
sessuali della danza.
Valenti
musicisti sono stati attirati dall’energia che sprizza vigorosa dai movimenti
dei ballerini. Tra questi possiamo citare Ciaikovsky che conclude il Capriccio
Italiano op.45, tutto luminoso e vibrante, con una trascinante tarantella,
oppure Stravinsky, autore nel 1919 del balletto Pulcinella, che si compone di
più brani, uno dei quali, appunto, è una tarantella, o, andando a ritroso, la
celeberrima Tarantella di Rossini, cavallo di battaglia, ancora oggi, dei più
importanti cantanti lirici. Nell’ultimo
secolo il celebre ballo, da fenomeno di costume popolare, si è trasformato in
attrazione turistica e solo nell’area sorrentina e nelle isole del golfo si
possono, raramente, ammirare esibizioni spontanee.
Tra
i libri, che cercano di conservarne viva la tradizione, fondamentale è il testo
di Max Vajro, pubblicato nel 1963 per conto dell’Azienda di Soggiorno e Turismo
di Sorrento oltre al volume, edito nel 1967 dal Touring Club Italiano, dedicato
ai balli popolari.
Vogliamo
ora, dopo questo lungo preambolo, ricordare una rarissima forma ballata ancora
oggi a Barano d’Ischia: la ‘ndrezzata, una tarantella armata in cui gli uomini
brandiscono bastoni, ricordata anche in un celebre film di Pieraccioni, che si
pratica il lunedì dell’Angelo a Buonopane, perché a differenza di altri eventi,
non è ispirata alla risurrezione di Cristo, ma simboleggia un momento di pace e
la fine delle ostilità tra gli abitanti di due frazioni: Barano e Buonopane.
Si
racconta infatti che intorno al 1500 un pescatore baranese aveva regalato alla
propria fidanzata una cintura di corallo, ma questa un giorno venne trovata
nelle mani di un giovane di Buonopane. La lotta che ne seguì non si limitò
soltanto ai due, ma coinvolse la popolazione di entrambi i paesi. Dopo scontri
sanguinosi, la pace avvenne ai piedi della statua della Madonna della Porta,
nella chiesa di San Giovanni Battista, il lunedì in Albis. Da allora questo
ballo popolare si ripete il giorno della Pasquetta e il 24 giugno in onore del
Santo Protettore, San Giovanni Battista. L’origine
della danza si intreccia con altre tradizioni che alimentano e rendono vivace il
folklore isolano. "A
mascarata", "Ndrizzata" e "A vattute e ll'astreche" erano le danze popolari
legate ad alcuni momenti della comunità ischitana, oggi divenute danze
folkloristiche grazie alla nascita di gruppi
specializzati. Secondo
alcune fonti "A mascarata" ha origini greche, secondo altre spagnole in quanto
si ballava in alcune sue località il giorno di Pasquetta o in occasione della
festa di San Giovanni, tra l'altro Santo patrono di
Buonopane.
Ci
sono diverse ipotesi che riguardano la genesi del ballo. Quella che unisce mito
e leggenda sostiene che la danza affonda le proprie radici nel 1500 in una faida
tra gli abitanti di Buonopane e Barano. Il manoscritto, rinvenuto nella
sacrestia della Chiesa di San Giovanni Battista a Buonopane, documenta la venuta
del Vescovo per placare la lite tra due abitanti dei rispettivi paesi nata per
la contesa di una ragazza. E' dal lontano 1540, che il lunedì in Albis, a
Buonopane, si ripete questa tradizione.
Altre
fonti, sicuramente più attendibili, definiscono il ballo " 'Ndrizzata" e
risalgono al primo dopoguerra. In questo periodo un numero considerevole di
buonopanesi, spinti dalla povertà, emigrarono negli Stati Uniti. A New York, un
gruppo di oltre centosessanta persone iniziò a ballare la danza che fu subito
repressa dalle autorità statunitensi perché interpretata come addestramento di
un gruppo sovversivo filo-comunista. Questo causò l'immediata espulsione dei
ballerini, che una volta rimpatriati ripresero la tradizione definendo la danza
"Mascarata" per la mancanza di un costume ufficiale, in quanto non si disponeva
di mezzi economici per realizzarlo. Solo negli anni '30 comparve il primo,
costituito principalmente da tessuti modesti come canapone, seta grezza e lana,
che attingevano agli abiti dei pescatori del '600.
Nel
1941, il gruppo di allora si recò alla Reggia di Caserta. L'esibizione fu
riportata nel libro di Maria Bianca Galante, pubblicato nel 1943 dall'Università
di Roma in cui furono descritti, nei minimi particolari, la danza, il costume e
la disposizione dei ballerini. Durante
gli anni '50 la danza diventò un connubio tra diversi balli praticati
sull'isola, assumendo il nome di " 'Ndrezzata", che ancora oggi è eseguita dal
"Gruppo Folk 'Ndrezzata". Figlia della "Trallera" per la presenza della serenata
del paesino collinare di Fontana, della "'Ndrizzata" di Campagnano per la
predica, della "Intrecciata" di Forio per i costumi da pescatore e della
"Mascarata" di Buonopane per il ballo. Anche il costume cambiò radicalmente con
l'utilizzo del velluto e del tricolore italiano. Le donne furono rigorosamente
escluse . Solo dal 1983, grazie alla nascita della "Piccola 'Ndrezzata" è
stato possibile ballare la danza nuovamente tra coppie miste. Con la nascita
della "Scuola del Folklore", nel 1997, è stata ripresa quella cultura popolare
infangata in passato, realizzando la danza con gli stessi costumi e la stessa
struttura che la caratterizzavano nella prima metà del
'900. 'A
Vattute e ll'Astreche, invece, deriva dall'usanza di costruire fino agli anni
'50 i tetti delle case a botte o a forma di piccole cupole emisferiche, dette a
carusiello, attingendo dalla cultura architettonica greco-araba. Le case che
oggi si costruiscono in cemento armato e spesso lasciano spazio a storie di
abusivismo e devastazione, prima venivano realizzate secondo canoni ben precisi.
La sagoma veniva preparata con un'intelaiatura di pali di castagno su cui
venivano appoggiati i "penicilli" (fasci di viti secche), che si ricoprivano con
un manto di creta (argilla o altro materiale lavico) e pietra pomice (pietre
vulcaniche leggere, ma forti e compatte). Terminata questa fase, il proprietario
issava di buon'ora una bandiera: era il segnale con cui si chiamavano a raccolta
parenti, amici, vicini, compagni. Tutto il paese era coinvolto e felice di dare
il proprio contributo alla realizzazione finale della nuova abitazione. Coloro
che partecipavano, portavano un puntone, un palo di pioppo con una parte più
larga, che serviva per comprimere il lapillo bagnato da calce bianca viva, fino
a renderlo impermeabile. Tale fatica durava per tre giorni, giorno e notte
ininterrottamente , ore che i puntunari scandivano cantando, raccontando
aneddoti o intonando filastrocche. Chi sapeva suonare uno strumento
accorreva. Si
iniziava con un canto propiziatorio Jesc sole, si passava a quello Saluta allu
padrone, per giungere al pettegolezzo principe del paese Nu sacce che succise a
Murupane. Poiché molti erano omonimi, il capo mastro dava il ritmo chiamandoli
per soprannome. Se il bere e il mangiare tardavano ad arrivare si era soliti
ricordare che una volta completato il tetto si usava buttare del grano di tanto
in tanto per evitare la comparsa di piccole fessure.
Nel
frattempo, le donne, accorse numerose, si dilettavano in cucina preparando
pietanze prelibate. Finita la grande abbuffata si iniziava a ballare tammurriate
e tarantelle, cantando per un'intera giornata. Il popolo era felice perché un
altro concittadino era riuscito a costruirsi un tetto e quindi il nido dove far
prosperare la propria famiglia.
Ritorniamo
ad esaminare la genesi della ‘ndrezzata che racchiude l’anima di Ischia, dove si
balla, si beve e si fischia….come recita un detto popolare napoletano.
Non
sono chiare le origini di questa danza, per alcuni è un poemetto nato nel
medioevo di tipo bellicoso e guerresco. Ma le origini del canto appaiono ben
più remote, strettamente connesse al retaggio mitico della cultura greca che si
era andata diffondendo a Ischia grazie ai primi coloni di
Pithecusa.
Le
fonti storiche disponibili sono due: un testo custodito nella Biblioteca
Antoniana di Ischia dove è citata un'ode del 1600 di Filippo Sgruttendio, in
voga nel beneventano: "a Cecca - invito a vedere la Ntrezzata" ed un
manoscritto, rinvenuto nella sagrestia della chiesa di San Giovanni Battista a
Buonopane, una frazione del comune di Barano d’Ischia in cui si racconta
dell'intervento del Vescovo al fine di dirimere una controversia tra gli
abitanti della contrada di Buonopane e quelli di Barano. Si
racconta che due uomini, Rocc'none di Barano e Giovannone di Buonopane,
corteggiavano la stessa donna. Rocc'none era un marinaio e in uno dei suoi
viaggi aveva acquistato una per farne dono alla donna amata. Nessun altro
possedeva quella fusciacca, così quando l'innamorato tradito vide Giovannone
indossarla, lo sfidò a risolvere la faccenda tra uomini presso il ponte che
divide i due paesi. Intorno al 1930 fu realizzato il primo costume, inspirato al
passato della gente comune, per lo più pescatori. I tessuti erano poveri e per
risparmiare la stoffa le maniche delle camicie vennero cucite al panciotto di
tela, assicurato da una doppia fila di bottoni; i pantaloni arrivavano sotto le
ginocchia, con stringhe allacciate all'estremità e per finire venivano calzati
sandali di cuoio. Il
mito antico legato alla ‘ndrezzata invece racconta di che Zeus trovò un giorno
Demetra furibonda e disperata perché Ade, dio dell'Averno, le aveva rapito la
figlia Persefone. Mosso da pietà verso la povera madre, il capo degli dei le
inviò le Muse e Afrodite per placarne l'animo, allietandola con musica e danze.
Tradizione vuole che la danza fosse praticata dalle Ninfe al ritmo di spade di
legno battute dai Satiri su rudimentali manganelli che accompagnavano la melodia
prodotta dalla cetra d'oro di Apollo. Apollo, pizzicando la cetra, si innamorò
della ninfa Coronide e dall'unione dei due nacque Esculapio. Appagato dall'amore
con la ninfa, il dio concesse alla sorgente Nitrodi, lì dove si svolgevano le
danze, la proprietà di offrire bellezza e guarigione. La cultura della danza si
diffuse ben presto in tutta l’isola, trovando terreno fecondo presso la sorgente
di Nitrodi a Buonopane, vicino Barano, zona agricola sul versante sud-orientale
di Ischia e divenendo un elemento caratterizzante del folklore
locale. Per
via di tutti questi elementi carichi di fascino, mistero e leggenda la
‘ndrezzata non può essere considerato un semplice ballo ma è da ritenersi un
vero e proprio rito, composto da tre fasi distinte: sfilata, predica e danza.
Ciascuno dei 18 danzatori tramanda ai propri discendenti i segreti della danza e
il privilegio di parteciparvi. Durante la sfilata metà dei danzatori entra in
scena con un giubbetto di colore rosso, che rappresenta gli uomini, mentre
l'altra metà indossa un corpetto verde che simboleggia le donne. Alla testa del
gruppo sfila il caporale, al suono di due clarini e due tammorre, un tempo
flauti e fischietti.
Al
termine della sfilata i gruppi di danzatori formano due cerchi concentrici,
impugnando, proprio come i fauni della leggenda, un mazzariello nella mano
destra e una spada di legno in quella sinistra. Agli ordini del caporale e al
ritmo dei suonatori parte la danza, che ricalca le mosse di base della scherma:
saluto, stoccate, parate e schivate. All'interno della danza due sono le figure
fondamentali: la formazione della rosa con l'intreccio delle mazzarielle a mani
alzate e l'elevazione su di essa del caporale, che in antico dialetto ischitano
recita la parte narrata (predica): le strofe sono dedicate all'amore, alla paura
dei saraceni, alle fughe sul Monte Epomeo, alla difficoltà del lavoro nei campi
e alla A vattut´ e ll´ astreche, cioè alla costruzione del tetto bombato in
pomice e calce delle abitazioni di Ischia e Procida. Per ammirare questa danza
l’appuntamento principale è la festa di San Giovanni Battista a Buonopane,
frazione di Barano d’Ischia alla fine di giugno. Achille della
Ragione
Acque miracolose, Lourdes?
No terme ischitane
Lucia Beringer |
Napoli e
provincia, per la presenza di due distinti vulcani, sono ricchissime di acque
termali che, a seconda della composizione, sono dotate di prodigiose virtù
curative per le più svariate patologie, un grandioso patrimonio sottoutilizzato
che potrebbe trasformarsi in una grande risorsa economica. Sin dal
medioevo Pozzuoli e Baia, per la caratteristica peculiarità delle loro acque,
ad uso della balneoterapia, vennero alla cronaca attraverso una sorta di
“Guida” che costituiva non solo una localizzazione delle fonti naturali ed
attive che esistevano in quel tempo nel territorio flegreo ma, soprattutto, ne
indicava l’utilità nei rimedi per combattere qualsiasi genere di dolore. Il
testo, che è considerato tuttora un valore documentale della medicina
medioevale, sia per le scienze che per la terminologia e la pratica attuativa,
è il codice pergamenaceo “De balneisPuteolanis” attribuito a Pietro
Anzolino da Eboli, un chierico della corte di re Manfredi, forse medico, testo
che si fa risalire alla scuola medica campana operante tra il 1258 ed il 1266,
che già prima di questa pubblicazione godeva di una notevole fama. Il prezioso
codice, che comunque ha subito nel tempo la mutilazione di diciotto carte
miniate descriventi trenta bagni, è conservato in pochissimi esemplari in
alcune biblioteche tra le quali la Biblioteca Angelica di Roma, dove abbiamo
potuto consultarlo con grande interesse. In esso sono descritte una serie di
terme, molte delle quali non ancora esaurite.L’isola
verde, per la presenza dell’Epomeo, attivo fino ad alcuni secoli fa, possiede
una varietà infinita di acque in grado di curare le più svariate affezioni.Quelle
sulfuree, localizzate soprattutto nella zona di Sant’Angelo, a fronte di un
aspetto pocoinvitante, dal verdastro al giallognolo, dovuto all’ossidazione
dello zolfo, vengono adoperate per le affezioni cutanee, ginecologiche e
respiratorie. Io stesso posso testimoniare che, dopo un bagno nelle piscine
dell’Apollon, che possiede anche saune umide in antiche grotte romane, uscivo
completamente rinfrancato dalla rinite allergica e con il naso completamente
liberato.
Nella zona
di Casamicciola e Lacco Ameno vi sono poi sorgenti radioattive che
costituiscono un formidabile toccasana per ogni tipo di dolore artrosico o
artritico. Molti alberghi ne potenziano l’effetto terapeutico adoperandole
sotto forma di fanghi ed anche in questo caso i grandi hotel hanno come
clienti, oltre ad imprenditori e professionisti, atleti di svariate discipline.Tra i
clienti celebri possiamo ricordare lo stesso Garibaldi, reduce dalla ferita al
piede, che si beccò nella battaglia d’Aspromonte, grazie ad una fucilata
piemontese. La sua permanenza per molti giorni fu resa pubblica dalle
corrispondenze di molti giornali napoletani come “Il Pungolo”, ed il periodico
“Lo corpo de Napule e lo Sebbeto”, redatto in vernacolo, ed indussero molti
napoletani a recarsi sull’isola in cerca di un rimedio alle loro malattie al
punto che i battelli emettevano un biglietto comprensivo del trasporto e della
cura termale.
Prima di
parlare ancora a lungo delle acque ischitane, incluse quelle della
piscina della mia villa: oligominerali, sgorganti a 55 gradi, accenniamo
a quelle veramente miracolose del “Gurgitello”, già conosciute dagli antichi
Romani che le utilizzavano per rimarginare le ferite. Esse sono dotate, a parte
uno scarso contenuto di minerali, di una particolare tensione superficiale che
produce un effetto simile a ciò che accade a Lourdes: uscire completamente
asciutti dopo una doccia. I primi e
più prestigiosi centri termali dell’isola di Ischia sorsero a Casamicciola dove
già nell’800 le famiglie patrizie trascorrevano lunghe vacanze in stazioni
termali sorte accanto alle ricche sorgenti di acqua calda. Una delle fonti di
Casamicciola nota fin dalla antichità romana per le sue acque miracolose è
quella del Gurgitiello. Tanto incredibili le proprietà di questa sorgente
termale che accanto agli studi scientifici dedicati al Gurgitiello dai primi
studiosi del termalismo isolano, furono create delle fabule mitiche . Una di
queste narra la favolosa origine della falda acquifera dalle lacrime di un
satiro innamorato. La riporta De Quintiis in un suo libro del 1726 intitolato
"Poetica origine del Bagno del Gurgitello in Casamicciola dal poema
Inarimeseu de balneisPithecusarum. Il satiro è Teleboo ed è innamorato di una
ninfa, ma non può averla, col cuore trafitto si aggira per l’isola piangendo,
si ferma a Casamicciola è qui per una di quelle straordinarie metamorfosi che
accadono soltanto nei racconti mitici le lacrime copiose danno vita ad una
fonte, una fonte calda come il cuore appassionato di Teleboo.
L'Isola
d'Ischia, già ricchissima di sorgenti di acque termali dalle innumerevoli virtù
terapeutiche, gode anche di una fortunata collocazione geografica che assicura
all'intero territorio isolano condizioni climatiche ed ambientali ideali per
ritemprare il corpo e lo spirito: le balze rocciose dell'Epomeo, le dolci
colline coltivate a vigneto, le riposanti pinete, la fresca brezza marina, le spiagge ed i tanti,
suggestivi, panorami fanno dell'antica terra di Inarime una sorta di dolce
giardino incantato dove godere degli effetti benefici delle fonti dell'eterna
giovinezza. Miniere
d’oro, così il medico Giulio Jasolino aveva ribattezzato le sorgenti termali
dell’isola d’Ischia in un celebre volume del 1588. E non poteva non essere
giudizio più attendibile, visto che lui a quelle acque benefiche aveva dedicato
lunghe ed approfondite ricerche per anni. Queste gli avevano consentito di
individuare i 29 bacini termali da cui scaturiscono le 103 sorgenti diffuse sul
territorio isolano. Già Jasolino aveva dimostrato che ogni sorgente presenta
proprie peculiarità e proprietà curative, come poi sarebbe stato verificato
anche dai nostri ricercatori contemporanei. Erano stati per primi i Romani,
grandi fruitori delle terme, ad accorgersi di quella particolare ricchezza
dell’isola, conseguenza della sua origine vulcanica. Ma proprio l’intensa
attività sismica ed eruttiva che raggiunge il suo acme in quell’epoca, impedì
che i Romani costruissero delle Terme.
Comunque dei
benefici delle acque usufruivano gli abitanti dell’isola, che frequentavano la
sorgente di Nitrodi, nel territorio di Barano. Una fonte miracolosa immersa in
una natura selvaggia che gli antichi identificavano con la dimora delle Ninfe
Nitrodi, cui dedicarono dei bassorilievi votivi. E c’è poi Cavascura sempre nel
comune di Barano. Un luogo che ancora oggi evoca profonde suggestioni, con le
vasche scavate nella roccia dove scorre l’acqua, che acquista le sue qualità
curative dal contatto col fuoco che cova nelle profondità dell’isola.
Che le terme
siano una “scoperta” degli antichi romani è cosa nota, ma non tutti sanno però
che sull’isola di Ischia vi sia un luogo rimasto intatto dall’epoca in cui
imperatori e senatori romani si recavano per prendersi la loro dose di “otium e
benessere”. Questo magico posto si trova sulla spiaggia dei Maronti, il suo
nome è “ Cavascura”
Gli
appassionati di geologia non potranno non ammirare nel percorso che dalla
spiaggia li conduce alla zona termale la bellezza delle chiare pareti rocciose
scolpite dagli agenti atmosferici di questo piccolo canyon, mentre il sentiero
si snoda circondato da piante spontanee, canne e papiri.
Qui in
questa cava vi è una delle più grandi fonti di acqua termale dell'isola: la
Sorgente della Cava Scura. Qui immutate, da secoli, le vasche scavate nel
morbido tufo ischitano dove immergersi per un bagno termale che è anche un
passaggio indietro nel tempo, qui la sauna naturale in una grotta profonda e
caldissima, qui le vasche fredde dove gettarsi con energia dopo saune e bagni
caldi.Qui nel
tempio del benessere naturale la vigorosa cascata di acqua tiepida da farsi
scivolare su tutto il corpo per una sferzata di puro termalismo. E come gli
antichi romani godendo vi rimetterete in sesto, magari scegliendo di potenziare
le cure termali con un benefico massaggio rilassante o drenante, anticellulite
o rivitalizzante: ma attenzione qui l’arte del massaggio ha solo duemila anni!
L’acqua
curativa può anche essere bevuta, come nel caso di Nitrodi, e giovare alle
malattie all’apparato digerente, dei reni e delle vie urinarie. Oppure si
possono fare i bagni, particolarmente indicati per le malattie della pelle,
reumatiche, del sistema nervoso, degli apparati circolatorio e urogenitale.
Ma Ischia è
famosa soprattutto per i fanghi, utili alle forme reumatiche e in ginecologia.
L’argilla viene messa a maturare per sei mesi in vasche contenenti acqua
minerale, rigorosamente controllata nella sua purezza, e il fango così ottenuto
viene poi applicato sulla parte bisognosa di terapia. Sempre la acque termali
vengono utilizzate per cure inalatorie che curano le infiammazioni croniche
delle vie aeree.
Lo
sfruttamento delle acque termali sull’isola risale ai primi decenni del
Seicento, a Casamicciola, dove si trovano due dei migliori bacini termali,
quello de La Rita e soprattutto quello del Gurgitello, a poca distanza dalla
costa. Sorsero in quella cittadina, decretandone una veloce crescita. Fu
l’inizio del turismo sull’isola, che doveva svilupparsi soprattutto nel secondo
dopoguerra. Rizzoli rilanciò il termalismo ischitano negli anni ’50, costruendo
dei grandi alberghi dotati di terme sul litorale di Lacco Ameno, lì dove sgorga
la sorgente della Regina Isabella. Da allora la capacità recettiva di Ischia è
cresciuta senza sosta. Oltre 300 strutture alberghiere, in gran parte dotate di
proprie terme di piscine di acqua calda, rappresentano una realtà
all’avanguardia in Europa, testimoniata dalla modernità degli stabilimenti
termali.
Notevole il
livello dei servizi offerti alla clientela nelle strutture ischitane. Le cure
tradizionali si accompagnano a massaggi, fisioterapia, ginnastica correttiva e
riabilitativa, sauna. Secondo una tendenza sempre più accentuata, le terme sono
diventate luoghi di recupero psico-fisico dell’individuo. Così anche sull’isola
sono nate presso le strutture alberghiere più attrezzate beauty farm che
coniugano i bagni termali con fitness, cura dell’alimentazione e trattamenti
estetici. Il tutto sfruttando i vantaggi di un ambiente salubre e
ecologicamente sano, in grado di favorire un soggiorno tranquillo e piacevole.
L’isola
d’Ischia è l’unico luogo al mondo in cui la natura e l’impegno dell’uomo hanno
saputo creare quelle meraviglie che sono i parchi termali, tra cui i più
grandi: Giardini Poseidon, Parco Termale Negombo, Parco Termale Castiglione.
Nei luoghi più panoramici dell’isola, offrono ai loro visitatori piscine
termali di diverse gradazioni incastonate in lussureggianti giardini, spiagge
private, reparti per le cure tradizionali e servizi di alto livello.
La padrona
dei Giardini di Poseidon, il più grande parco termale d’Europa, è una giovane
architetta, Lucia Beringer, figliola di Anton Staudinger che li acquistò dal
magnate tedesco Ludwig Kuttner. Sposata con
una figlia, ha esercitato la professione a Monaco, mentre ora fa la pendolare
tra Ischia e la Germania. I suoi nemici le rimproverano i modi da generale e
una rigidità prussiana. Gli estimatori ne lodano il rigore e l'amore per l'
Italia. Lucia Beringer in Germania era un affermato architetto noto per aver
realizzato il Trias, un moderno complesso di tre torri che si staglia nel cuore
della capitale. Poi ha lasciato il suo studio di progettazione a Monaco di
Baviera. ha cambiato vita e mestiere: se n'è venuta a Ischia per occuparsi a
tempo pieno del più grande parco termale d'Europa. Terza dei cinque figli di
una famiglia bavarese con interessi in varie parti del mondo, Lucia sull'isola
ci veniva già da ragazza per accompagnare il padre Anton, proprietario dei
Giardini Poseidon di Forio. Ottimista di carattere, ha portato a Ischia nuove
idee e si è tuffata a capofitto per realizzare i suoi progetti: dare ai
Giardiniun' oasi di 60 mila mq ecologicamente intatta , un nuovo look con più
alberi, fiori, viali, una nuova piscina coperta. Stando attenta a ogni
dettaglio, ha rivalutato il tufo verde ischitano per i muretti di contenimento
e trovato una mattonella per le 23 piscine che si disinfetta con la luce.
Sicché ha trascorso l'intero inverno a lavorare dalle 6:30 di mattina alle 11
di sera, instancabile.
Si sente
parte napoletana ma non accetta alcune logiche che nel sud sono legge, come
l’abuso degli ingressi gratuiti alle autorità. Si fa forte dell’esempio della
Merkel, vecchia ed assidua frequentatrice dell’isola, la quale quando prende
l’aliscafo paga il biglietto.
Nel breve
tempo trascorso sull'isola, Lucia ha imparato a conoscerne i tanti difetti con
lunghe passeggiate a piedi: le strade rotte, l'immondizia, il traffico caotico,
la mancanza di parcheggi. Ma soprattutto si è resa conto delle potenzialità
sprecate: «Qui pochi hanno una visione chiara del futuro. Eppure Ischia è una
delle isole più belle del Mediterraneo e vive di turismo. Bisognerebbe
difenderne le bellezze, non deturparle, invece molti non rispettano alcuna
regola».
Il rapporto
con i dipendenti, tutti ischitani, è quello che sta dando le maggiori
soddisfazioni alla manager. «I miei collaboratori all' inizio non mi
conoscevano, poi hanno capito come sono fatta e di mattina, quando cominciamo
il lavoro, c'è una bella atmosfera. Non sono una che comanda e basta. Cerco
invece il dialogo e la collaborazione con gli altri. Ma per gestire un'azienda,
alla fine, si devono avere idee chiare e prendere decisioni». Lucia non ha
ancora deciso quanto tempo rimarrà a Forio: «Per ora faccio la pendolare tra la
Germania e Ischia e sono contenta. Dell'Italia, che considero uno dei più bei
paesi del mondo, mi piacciono la cultura, il mare, il cibo, la gente. E anche i
poeti: sto leggendo le poesie di Ungaretti. Non mi piacciono invece certi modi
di fare che sono in contrasto con l' educazione che ho ricevuto e col mio senso
del dovere».
Il suo sogno
è creare con i Giardini di Poseidon un vero e proprio modello ambientale, che
come per altre località italiane, quali ad esempio Saturnia, dove gli alberghi
lavorano 12 mesi l’anno, meriterebbe di
stare sempre aperto e non da Pasqua a Novembre, creando ricchezza ed
occupazione.Purtroppo un’arcaica normativa che regola i lavoratori stagionali
non lo permette!!Chi è causa del suo mal pianga se stesso.
La baia di
San Montano è una delle più belle dell'isola, nell'abbraccio di due verdi
colline l'acqua di questo mare è verde come lo smeraldo. E un trionfo di
natura, tra fiori, piante tropicali ed alberi mediterranei, è il parco termale
Negombo. Dove l'acqua e l'arte sono protagoniste di un giardino delle delizie.
Elioterapia,
massaggi, aerosol, inalazioni, piscine termali dotate di getti per
idromassaggi; insomma tutto per rigenerare e regalare benessere, senza
dimenticare che le acque termali possono essere efficaci in numerose affezioni
dell’apparato osteo – articolare.
L'attuale fisionomia del parco deve molto
all'intervento appassionato di un celebre paesaggista. Il suo impegno è stato
quello di creare un giardino profondamente ancorato alla millenaria cultura
contadina del luogo e ricco di sorprese e soluzioni inaspettate: la vasca in
cemento che ricorda i vasconi di raccolta dell'acqua piovana, la lastra in
ardesia che ripropone i salti d'acqua, la cascata ispirata alle cadute di
ossigenazione.
In questo
giardino, luogo privilegiato del rapporto fra uomo e natura, il paesaggio
rurale si integra con la magnificenza di piante provenienti dall'Australia, dal
Giappone, dal Sudafrica e dal Brasile.
Il parco del
Negombodispone di un'arena di 1700 posti, animata, nelle serate estive, da
concerti di musica classica, leggera e jazz.Vi si sono esibiti ,tra gli altri,
Miles Davis e Mireille Mathieu, Tina Turner e Ray Charles, Arbore e Baglioni,
Dalla e Morandi.
Una fonte
antichissima alimenta le piscine del parco termale Castiglione, nel comune di
Casamicciola. Un vero e proprio centro relax con panorami mozzafiato sul mare e
sulla costa napoletana.
Si scende
con una pittoresca funicolare dalla quale potrete osservare la bellezza del
parco che ha 10 piscine di cui 8 termali, con varie gradazioni: dai 30 ai 40
gradi centigradi, percorsi Kneipp, sauna naturale, e reparto termale dove si
possono effettuare fanghi, bagni, inalazioni, aereosol, massoterapia.Un ottimo
ristorante proprio sul mare ed un bar ristorante self – service sono dei punti
ideali per una pausa dolce o salata.
Al centro
termale Castiglione troverete inoltre un pontile sul mare attrezzato con sedie
sdraio e lettini. E per chi ama lo sport corsi di acqua gym in piscina.
Il Parco
Termale Tropical è situato all'ingresso del famoso villaggio di pescatori
Sant'Angelo d'Ischia, la parte più esclusiva ed incontaminata dell'isola a
pochi passi dalla fermata dei bus di linea e dalla baia di Cava Grado. La
posizione unica, rialzata su una collina a picco sul mare, offre un panorama
incomparabile di S. Angelo e della famosa "Torre". Concedetevi
un'immersione in un'oasi di relax.
Oltre alle
10 piscine ed altre strutture balneari, nel centro di benessere sotto controllo
medico è possibile sottoporsi a numerose cure e trattamenti. Fisioterapia,
massaggi, cure inalatorie, fango, trattamenti di bellezza, trattamenti
antistress: affidatevi alle cure del nostro personale altamente specializzato
per stabilire un programma personalizzato di trattamenti adatti alle vostre
esigenze. Il Tropical offre numerose piscine termali di varie temperature che
vanno dai 18 ai 40 C con acqua batteriologicamente pura, naturale, radioattiva
e limpida. Già gli antichi romani erano a conoscenza delle miracolose proprietà
terapeutiche delle acque dell'Isola d'Ischia, delle loro naturali capacità a
lenire dolori di ogni genere. Le nostre acque termali sono particolarmente
indicate per tutte le malattie dolorose e degenerative della colonna
vertebrale, delle articolazioni, dei tendini, dei muscoli e dei legamenti. Così
come per disturbi dei movimenti e della circolazione dopo ferite ed incidenti,
per malattie della pelle e pelli impure. Sono inoltre efficaci per combattere
disturbi neuro-vegetativi. Le sorgenti termali "Tropical" vengono
catalogate dal Prof. Dr. Marotta e Dr. Sica nel catalogo delle sorgenti
d'Italia come alcaline-salso-solfato-terrose. Il valore PH delle sorgenti è di
7,2. Queste acque incontaminate (alla sorgente di una temperatura fino a 98 °C)
vengono fatte sgorgare in superficie da una profondità di oltre 100 m.,
raffreddate e filtrate con la più moderna tecnologia, in modo da poter offrire
al visitatore acqua batteriologicamente pura e cristallina, conservando i
minerali in essa disciolti.
I ritmi
frenetici della modernità necessitano di opportuni palliativi, per cui, da
alcuni anni, molti hanno riscoperto antichi riti rigenerativi, già largamente
adoperati da Greci e Romani e diffusi anche nel mondo arabo con gli hammam. La
nuova moda si è perciò trasformata in una sorta di pellegrinaggio laico alle
fonti del benessere, cercando nell’acqua calda il rimedio contro il logorio
dello stress.
Nell’antica
Grecia i guerrieri dopo le battaglie curavano le ferite con acque cicatrizzanti
sulfuree, in seguito i Romani, grandi costruttori di acquedotti, crearono nelle
terme uno spazio pubblico dedicato a ritemprare il corpo e lo spirito.
Vi era un
giorno dedicato ad immortalare i fasti di queste divinità liquide: i Fontanalia,
il 13 ottobre, in ricordo delle quattro ninfe che custodivano un’antica fonte
sacra dell’Elide.
Anche i
grandi luoghi di culto dell’antichità sorgevano e prendevano energia dall’acqua
e dai suoi vapori. Il tempio di Zeus ad Olimpia sorgeva presso una sorgente di
acqua minerale, mentre il santuario di Apollo a Delfi si trovava a ridosso
della fonte Castalia pregna di acque vaticinanti, dove i fedeli si immergevano,
come oggi a Lourdes e dove la profetessa Pizia, dopo averne bevuto
abbondantemente, si sedeva su una fenditura della roccia da cui uscivano
vigorosi vapori, che la penetravano, ponendole in bocca parole divine. Quindi,
posseduta, raggiungeva l’estasi orgasmica e prediceva il futuro.
Nell’Ottocento
vi è un revival delle terme e sorgono moderni templi del benessere frequentati
dalla ricca borghesia a Baden Baden, Karlsbad, Marienbad, Plombiers, Vichy ed
ad Spa, cittadina belga, dal nome che è un acronimo del latino salus per
acquam, da cui prendono nome gli attuali centri benessere. Anche in Italia
diventano famose ed affollate località come Bagni di Lucca e Salsomaggiore ed a
metà del Novecento Ischia con le sue molteplici acque dagli effetti miracolosi,
che erano ben noti e sfruttati dai Romani.
Oggi, in un
mondo stressato da impegni incalzanti, frequentare un bagno turco o sottoporsi
ad un massaggio shiatzu, è divenuto un rito obbligato per liberarsi dalle
velenose tossine provocate dai ritmici frenetici imposti dal consumismo, una
liturgia obbligata e defaticante.
Spendere
denaro, e tanto, è un po’ come sacrificare alle antiche divinità acquatiche per
ottenere in cambio benessere e felicità. Una moda che ha contagiato anche
l’universo dei fedeli, che si immergono speranzosi, non solo a Lourdes, ma
anche nei tanti bagni dedicati a Madonne più o meno miracolose.
Non
chiediamo più alle acque di conoscere il nostro futuro, bensì vogliamo
preservare e migliorare il nostro presente, conservando la giovinezza. Come
tanti insaziabili Narcisi cerchiamo la depurazione dalle scorie di
un’alimentazione ipercolesterolemica e non più la purificazione dello spirito. Ai nostri
giorni cerchiamo la resurrezione del corpo nelle maliziose offerte di un
resort, ci sottoponiamo mansueti a robusti linfodrenaggi e ad ingurgitare
tisane diuretiche. La nostra massima ambizione è salvare il corpo, incuranti
del destino dell’anima, chiediamo al potere liquido la salute e non la
salvezza, non vogliamo un’acqua santa che mondi i peccati, purché liberi dalle
tossine. Achille
della Ragione
RESTAURATO PALAZZO CARAFA MADDALONI
UN GIOIELLO DELL'ARCHITETTURA DELLA CITTA'
Il sindaco Luig De Magistris |
Palazzo Carafa Maddaloni
ritorna all'antico splendore: dopo trent'anni è stato restaurato il bellissimo portale in piperno
e marmo statuario realizzato da Cosimo Fanzago, grande esempio
dell'architettura barocca napoletana realizzato da Cosimo Fanzago. Nel 2010 sono
cominciati i
lavori di restauro che oggi finalmente hanno riconsegnato al palazzo il portale
che ne aveva
arricchito il potenziale scenografico e simbolico, segnale della potenza
della famiglia
che lo abitava, e vero arco di trionfo che precede scenograficamente la visione
del cortile e del
loggiato sullo sfondo.
Via Caracciolo e Mergellina luoghi da favola
Il lungomare più affascinante
del mondo
Celebrata
nei secoli per la sua bellezza da pittori e poeti, la zona è stata
completamente modificata dalle colmate che hanno avanzato la linea
costiera nella seconda metà del XIX secolo, trasformando l'antica
via Mergellina, che correva lungo la riva del mare a partire dalla
Riviera di Chiaia, in una strada interna su cui affacciarono i nuovi
palazzi di stile eclettico del viale Elena, oggi viale Gramsci. Mergellina (in
napoletano Margellìna) è una zona della città di Napoli, nel
quartiere Chiaia, che si estende tra il largo Sermoneta e la
Torretta, lambendo Piedigrotta e la Riviera di Chiaia. Si trova in
riva al mare, ai piedi della collina di Posillipo. Il suo stesso nome
è legato alla posizione sul Golfo: deriva infatti forse dal termine
"mergoglino" (uccello acquatico), oppure prende nome da
Mergoglino, un giovane pescatore che si era innamorato di una sirena.L'ultimo
intervento sul lungomare di Mergellina fu negli anni Trenta del XX
secolo, quando fu realizzata la colmata che permise il prolungamento
di via Caracciolo (che divenne il nuovo lungomare di Mergellina) fino
al largo Sermoneta e dunque a via Posillipo. Sulla colmata nel 1939
fu posta la fontana del Sebeto. Dal
porticciolo di Mergellina (un tempo di pescatori, oggi turistico, con
il molo Luise che funge da luogo di passeggio sul mare) partono
quotidianamente gli aliscafi per le isole del golfo.Mergellina
è caratterizzata anche dalle rampe di Sant'Antonio, sistemate dal
viceré Medina de Las Torres nel 1643, che salgono dal limite nord di
piazza Sannazaro e prendono il nome dalla chiesa di Sant'Antonio a
Posillipo, situata sulla loro sommità.Sono
inoltre presenti l'antica Fontana del Leone (detta anche del
Mergoglino) lungo via Mergellina, l'ottocentesca Fontana della Sirena
in piazza Sannazaro e la chiesa di Santa Maria del Parto, fondata (su
un podere avuto in dono da Federico d'Aragona) dal poeta Jacopo
Sannazaro, ivi sepolto. Il tempio si trova al di sopra di rinomati
ristoranti meta per i buongustai della città e non, tra i quali
spicca il rinomato Carminuccio a Mergellina celebre taverna di
pescatori a conduzione familiare. Mergellina
occupa lo spazio incluso tra l’inizio di via Posillipo e la fine
della Villa comunale nei secoli è sempre stato tra i più
belli della città. Non è soltanto il nostro parere, ma anche quello
di illustri poeti e scrittori del passato che lo hanno affermato, da
Plinio a Tacito, da Boccaccio a Goethe, da D’Annunzio a Virgilio,
che vi abitò stabilmente, scrivendo, ispirato dal clima dolcissimo e
dal paesaggio irripetibile, le Georgiche, un inno immortale alla vita
ed alla natura.Oggi
purtroppo come tanti angoli della città è stato devastato dal
traffico incessante, una serie infinita di bancarelle, i cartelloni
pubblicitari ed una frequentazione poco raccomandabile. Un
tempo vi erano soltanto laboriosi pescatori, con le loro barchette,
indispensabile strumento di lavoro, sulla spiaggia ed allegri
tarallari, che offrivano a napoletani e turisti i loro prodotti,
appena sfornati, croccanti e saporiti.Via
Caracciolo è la lunga e larga promenade di Napoli: un lungomare che
parte da Mergellina e arriva a piazza Vittoria, fiancheggiando la
Villa comunale e la Riviera di Chiaia, antica spiaggia della città. Il
suo nome ricorda l'ammiraglio Francesco Caracciolo, eroe della
Repubblica Partenopea, impiccato nel 1799 da Nelson all'albero
maestro della sua nave e gettato nelle acque del golfo di Napoli, il
cui cadavere riemerse e fu raccolto sul litorale di Santa Lucia.Solitamente
strada a scorrimento veloce, ma con ampi marciapiedi per passeggiare,
fare sport e respirare aria di mare, la strada si popola di famiglie,
bambini, sportivi, saltimbanchi e artisti di strada nelle saltuarie
domeniche in cui viene chiusa al traffico, e dedicata allo svago dei
cittadini. Fino
alla fine dell'800, il mare giungeva quasi fino ai palazzi della
Riviera di Chiaia; poi si decise di colmare la spiaggia, creando
questa nuova strada, dedicata all'ammiraglio napoletano del
Settecento, uno dei personaggi della Rivoluzione del 1799. Le
scogliere presero così il posto della sabbia, eccezion fatta per
alcuni lembi di spiaggia sopravvissuti, in corrispondenza delle
celebri rotonde. Creata su una colmata nel 1869-80, la grande strada
è considerata una delle più belle litoranee del mondo e corre fino
a Mergellina con visioni panoramiche sulla città e sulle colline del
Vomero e di Posillipo.È
separata dal mare solo da alcune scogliere artificiali, che hanno
preso il posto delle antiche spiagge di cui restano solo alcuni
frammenti in prossimità delle rotonde; un progetto del Comune di
Napoli prevede per il futuro la ricostituzione dell'arenile. Dotata
di ampi marciapiedi, veniva chiusa al traffico e dedicata allo svago
dei cittadini la domenica. Attualmente, la strada è aperta al
transito veicolare in entrambe le direzioni con due corsie per senso
di marcia con annessa pista ciclabile sul lato mare. Il tratto di
strada che va da Piazza della Repubblica fino alla confluenza di
Viale Dhorn (comunemente chiamata "rotonda Diaz"), è dal 6
maggio 2013 area pedonale. A metà percorso si apre la rotonda Diaz,
un ampio spazio circolare detto così per la presenza del monumento
equestre al generale Armando Diaz, opera del 1936 di Francesco Nagni
e Gino Cancellotti, affiancato da due grandi fontane circolari. Costruita
nel 1883 è ritenuta una passeggiata da favola, non solo dagli
indigeni, ma anche da illustri personaggi del passato e dai turisti,
che ancora si avventurano a visitare la città.
In
precedenza la costa era caratterizzata da un susseguirsi di piccole
spiagge, anfratti rocciosi e piccole rade, mentre affianco alle poche
casette di pescatori, dominavano solenni dei pini secolari. La
città con la creazione della nuova arteria acquistò in modernità,
ma dovette perdere un paesaggio bucolico impareggiabile.Un
discorso a parte merita il mercatino dell’antiquariato, che si
svolge in alcuni fine settimana nei vialoni della Villa comunale, un
appuntamento vivace che, nato in sordina, ha conquistato in breve
tempo la fiducia dei collezionisti napoletani e soprattutto ha fatto
avvicinare alla passione per l’antico ampie fasce di neofiti. La
merce esposta è la più varia: mobili e ceramiche, quadri e vasi,
croste e cianfrusaglie, tappeti, statue, cartoline, manifesti, libri
antichi e moderni, telefoni d’epoca e giradischi rotti, e chi più
e ha più ne metta. Ogni tanto ci scappa l’affare per
l’intenditore, più spesso capita l’imbrusatura per chi si
avvicina per la prima volta a questo tipo di mercatini. Gli
espositori non sono solo napoletani, ma vengono da tutta la Campania
ed anche da altre regioni. Qualche
domenica, con il sole ed il divieto di circolazione, la folla è
straripante e gli affari per i commercianti vanno a gonfie vele.I
libri antichi dalle preziose copertine sono offerti in numerose
bancarelle e l’occhio del conoscitore spesso riesce a fiutare il
pezzo di pregio sfuggito allo stesso commerciante. Molto è anche il
ciarpame e tutta una serie di cose inutili che sembra incredibile
possa trovare un acquirente, ma molti sono i frequentatori di bocca
buona ed alla fine ogni oggetto, se ha pazienza, trova la sua
collocazione. Le
vendite sono facilitate dall’atmosfera incantevole di una splendida
villa baciata dal mare, l’elemento regolatore della visibilità e
della vivibilità dell’intera città e della spettacolare via
Caracciolo, la strada, senza false modestie, più bella del mondo.Via
Caracciolo, la regina tra le strade napoletane, si sviluppa per buona
parte del lungomare napoletano, congiungendo Mergellina alla zona di
S. Lucia, protraendosi, pur cambiando denominazione, fino a via
Acton. La
zona di S. Lucia è una delle più belle ed eleganti della città di
cui rappresenta un’efficace sintesi di storia e costume.
Dall’isolotto di Megaride dove Lucullo imbastiva sfarzose tavolate
con pranzi succulenti alla mole imponente del Castel dell’Ovo, fino
al Chiatamone, al Pallonetto ed al Borgo marinaro palpitanti di vita,
dove nell’Ottocento si accalcavano caratteristici venditori di
acque sulfuree nelle originali mummarelle e di freschissimi frutti di
mare.Un
luogo dove nel nono secolo a. C. nasce la stessa città di Napoli,
anche se l’aspetto odierno è quello determinato dalla coraggiosa
colmata verso il mare, eseguita nei primi anni del Novecento, che ha
permesso di acquistare spazio vitale. Ed
inoltre una miscellanea di personaggi dalle dive del caffè chantant
ai contrabbandieri, da impeccabili viveur ad artisti e scrittori,
oltre a personaggi leggendari: Zi Teresa, Marotta e Ranieri ed i
grandi della Terra riuniti nei grandi alberghi per il mitico G7.Riportiamo
una nostra lettera, pubblicata dai principali giornali nazionali:
“Amore, non 6 un sogno, ma una splendida realtà, perciò posso
sognarti”, questa frase è incisa su uno scoglio di via Caracciolo
e leggendola anche io ho voluto sognare ed ho immaginato la strada
più bella del mondo trasformata in un’arteria ad otto corsie con
una spiaggia lunga chilometri e decine di migliaia di bagnanti
accorsi da ogni angolo della Terra a rosolarsi al sole. Un
sogno malizioso, ma non proibito, che potrebbe diventare realtà con
una spesa un decimo di quella preventivata per la bonifica di
Bagnoli, se una volta tanto politici e mass media facessero fronte
comune per assicurare alla città una risorsa prodigiosa in grado,
oltre al prestigio planetario, di assicurare migliaia di posti di
lavoro ed un futuro ai giovani costretti ad un esodo di dimensioni
bibliche. E
su questa bellezza che tutti ci invidiano, concludiamo, per la gioia
dei neoborbonici, con una favoletta. Un
bambino passeggia in compagnia dei genitori sul celebre lungomare e
chiede al padre perché al famoso ammiraglio è stata intitolata una
strada così importante. “Perché
era un martire del ’99 figliolo” - risponde il padre – “e
cosa ha fatto per divenirlo?” – chiede ingenuo il pargoletto –
“ha tradito il suo re!”.
Achille
della Ragione
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